Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 9/7/2014, 9 luglio 2014
IL «DIARIO POSTUMO» DI MONTALE TROPPE PROFEZIE PER ESSERE AUTENTICO
Soffermarsi fino a ottenere chiarezza (per quanto possibile) su un’opera in odore di falso che circola indisturbata con il nome di Eugenio Montale, uno dei maggiori poeti del Novecento, non può essere un’operazione oziosa. Le discussioni sul Diario postumo si accesero il 20 luglio 1997 grazie a un lungo articolo di Dante Isella apparso sul «Corriere della Sera» in cui si denunciava senza mezzi termini la natura apocrifa della raccolta. Furono discussioni che, fino all’autunno 1998, coinvolsero tanti, filologi, critici, poeti, editori, amici, testimoni occasionali: in vario modo scettici o certi, avversari e sostenitori convinti o tiepidi dell’autenticità. Protagonista e grande imputata di quell’accusa di falso fu la poetessa Annalisa Cima, giovane amica di Montale dal 1969, che a distanza di cinque anni dalla morte del poeta editò per la Fondazione Schlesinger, nel 1986, una plaquette contenente sei componimenti montaliani inediti: «Queste sei poesie fanno parte di un diario poetico che Eugenio Montale ha regalato, con l’incarico della curatela, ad Annalisa Cima. Il diario poetico data dal 1968 al 1979». Si trattava della prima di undici tappe, che prevedevano, per volontà dichiarata del poeta, l’apertura di altrettante buste contenenti ogni volta sei inediti.
Già in occasione di quella prima uscita Giovanni Raboni, sulla base di alcuni testi anticipati qua e là, disse che erano poesie troppo brutte per essere vere. La serie doveva dunque chiudersi con 66 componimenti in tutto, ma nel 1996 si scopre che nell’ultima busta c’è un bustone autonomo con altre 18 poesie. Dunque il numero complessivo si fissa a 84: sono i testi che quello stesso anno confluiranno nel volume Diario postumo , pubblicato da Mondadori per la cura filologica di Rosanna Bettarini e presentato come «l’ottavo libro di versi» montaliano. A complicare le cose, si aggiungono ventiquattro successive lettere-legato (1972-1980) in cui Montale dichiara di affidare alla sua ispiratrice le poesie in questione perché le pubblichi «quattro o cinque anni dopo la sua morte, inizialmente sei ogni anno, riunendole poi in un solo libro». Anzi, nell’ultima (10 ottobre 1980) il poeta avrebbe designato la Cima erede universale e curatrice scientifica di tutta la sua opera. Quelle lettere furono certificate dal notaio di Lugano John Rossi (al quale, come notaio, non spettava la verifica dell’autenticità degli originali). Nacque da qui un lungo contenzioso tra Cima e Mondadori, che nessuno però volle portare fino in fondo: la poetessa, nonostante le ripetute minacce giudiziarie, rinunciando di fatto all’eredità morale ed economica complessiva; l’editore pubblicando comunque quella raccolta e tenendosi i dubbi.
Se la Cima avesse messo a disposizione degli studiosi le carte originali del cosiddetto Diario postumo , la faccenda si sarebbe conclusa ancor prima di cominciare: il fatto è che la dedicataria e depositaria di quelle poesie, pur promettendo occasionalmente la visione degli autografi (cosa normale per qualsiasi testo letterario che voglia essere studiato per bene), non ha mai dato seguito alla richiesta, a parte quando, nell’ottobre 1997, le mise in mostra (sotto vetro) per un paio di giorni in un grande albergo di Lugano. Oltre a essere «troppo brutte» le poesie, la grafia non convinceva, essendo molto diversa da quella tremolante e incerta del Montale vecchio: Isella citava, a questo proposito, una perizia necessariamente sommaria fatta dall’esperto di scritture antiche e moderne Armando Petrucci sulla base di qualche facsimile edito dalla Cima: ne veniva segnalato «il sospetto di inabili falsificazioni, per di più eseguite con tecniche diverse e forse anche da mani diverse».
Ora, perché si torna a parlare del Diario postumo ? Perché ci sono studiosi che non si rassegnano alla previsione fatta nel 1998 da Raboni, il quale chiedendosi se questa storia avrebbe mai avuto fine, rispondeva: «La mia previsione, o almeno la mia impressione, è che no, non finirà mai; e questo per la semplice, semplicissima ragione che l’unica persona che potrebbe farla finire non ne ha né l’intenzione, né la volontà, né (viene da supporre) l’interesse». Tra gli studiosi che non si rassegnano c’è il filologo classico di Bologna Federico Condello, che ha preso a cuore la faccenda al punto da ricostruire passo per passo la vicenda andando a spulciare gli oltre 500 articoli che riguardano il Diario postumo , interviste comprese (alla Cima e ad altri), oltre ad analizzare tutti i documenti che riguardano quei testi. Un lavoro mostruoso (che uscirà in settembre per la Bononia University Press) sulla trasmissione testuale, da cui emerge che le buste in realtà non sono mai esistite: il che è talmente cruciale da far crollare l’intero castello costruito dalla poetessa. I punti, per ironia della sorte, sono undici.
1. La Cima mostra, descrivendone nei dettagli gli aspetti quantitativi e qualitativi, di conoscere poesia per poesia il contenuto del Diario postumo e la sua organizzazione in largo anticipo sull’apertura (presunta) delle buste.
2. Dai confusi racconti forniti dalla stessa Cima, vengono fuori numerose modalità di trasmissione dei testi che però confliggono tra loro e soprattutto contraddicono elementi biografici accertati: ci sono testi consegnati alla destinataria, quindi restituiti a Montale e da questi consegnati al notaio; ci sono testi consegnati alla Musa e dalla Musa girati subito o in seguito al notaio; ci sono testi letti dall’autore alla Cima e consegnati presto o tardi a lei che li ha poi girati al notaio; altri testi furono letti e non consegnati alla Cima ma solo al notaio; in ultimo altri testi sarebbero stati consegnati dal poeta al notaio senza passaggi intermedi, ma poi ritirati e di nuovo riconsegnati. Varie combinazioni, insomma, che compongono, tra il 1969 e il 1979 (sono gli anni di composizione delle poesie) quelli che la stessa Bettarini ha chiamato, senza verificarli, i «tragitti avventurosi» delle carte. Fatto sta che Montale avrebbe esercitato le sue prerogative autoriali solo se davvero l’insieme magmatico delle poesie, strutturalmente esposte a ogni arbitrio e manomissione nelle fasi precedenti, fosse stato da lui sigillato dentro le buste. Ma è stato così?
3. Sulla base delle varie e contraddittorie testimonianze, è difficile trovare un quadro coerente entro cui situare le buste, che dovrebbero rappresentare l’aspetto più significativo della sensazionale eredità. La Bettarini, curatrice dell’opera, nel pieno della polemica, ammette di non averle mai viste: ritiene sufficiente fidarsi della parola della Cima, la quale qua e là assicura di aver assistito Montale mentre chiudeva gli undici involucri, smentendosi però altrove, con dichiarazioni difformi.
4. Condello ricostruisce dunque la «leggenda delle buste»: e scopre che si tratta di una rivelazione tardiva (fine 1987, e cioè emersa con la seconda tranche di poesie). La loro funzione resta però incerta, viste le molte contraddizioni al riguardo (inizialmente la Cima parla, tra l’altro, di singole buste per ogni poesia), compresa una dichiarazione secondo cui non sarebbe stato Montale, con la collaborazione della Musa, a operare la scelta e i raggruppamenti ultimi, ma la stessa destinataria.
5. Nonostante la prescrizione del poeta nelle lettere-legato, non ci sono norme salde che regolino la presunta apertura delle buste, viste le numerose (e larghe) anticipazioni che vengono distribuite ai giornali: a volte anche di venti mesi, con stupefacente libertà di gestione.
6. Il 4 settembre 1997 la studiosa Maria Corti si dichiara sulla «Repubblica» testimone oculare e auricolare dell’esistenza delle carte: una affermazione che appare ai più risolutiva. È il ricordo di un incontro con Montale dell’autunno 1971, in cui il poeta le avrebbe confessato di avere in corso di lavorazione una raccolta da dare alle stampe postuma e «in ondate successive», un «beffa per i filologi». Esecutore testamentario la Cima. Più in là la filologa aggiunge che nell’autunno del ’73, in casa di Montale, avrebbe assistito a un furtivo passaggio di carte tra il poeta e la sua ispiratrice. Nessuno si chiede come mai quella scena-madre emerga così tardivamente, perché nello stesso giro di giorni se ne ricordi anche la Cima e come mai si parli di un gruppo «notevole» di carte quando in genere il passaggio tra la Cima e il poeta, stando ai plurimi racconti della stessa, si limiti a una, due, al massimo tre poesie. Infine, perché la stessa Corti non sia mai più tornata a citare né a raccontare quelle occasioni tanto definitive. Insomma, anche la memoria della studiosa sembra avere parecchie controindicazioni su cui non si è mai fatta luce. Ferma restando la sua buona fede, si tratta di «un tranello»?, insinua maliziosamente Condello.
7. C’è una cospicua serie di strane «coincidenze» che percorrono la pubblicazione a rate del Diario postumo . Montale, nei legati più tardi, che vengono aperti dopo il 1986, fissa al 1996 (l’anno del suo centenario) la fine della pubblicazione delle singole tranche del Diario e l’inizio di un’altra stagione in cui verranno resi pubblici altri inediti: conversazioni, traduzioni, prose e disegni. Ma per avere così netta la data-spartiacque del 1996, il poeta doveva avere una facoltà profetica insospettabile: cioè conoscere sin dal ‘72 l’anno della sua morte, in modo tale che partendo, come da suo desiderio, dall’86 (cinque anni dopo la sua dipartita) con la prima plaquette , si arrivasse esattamente nel centenario della sua nascita all’esaurimento dell’intero corpus .
8. Non solo. In un testo che appartiene alla busta 7, Montale profetizza la crisi politica dell’aprile-maggio 1992, esattamente l’anno in cui la poesia sarà pubblicata in plaquette . Il 15 maggio quella poesia viene anticipata sulla «Repubblica »(il «Corriere », cui pure viene inviata dalla Cima, evita di pubblicarla perché subodora l’incongruenza cronologica). Il componimento, datato 1970 secondo quanto ne dice Paolo Mauri che lo presenta sul quotidiano romano, è dedicato «All’Onorevole-Direttore», ovvero a Giovanni Spadolini, che appunto nel ’70 era in sella in via Solferino: «Più storico che politico / non riuscirà certo a tenere / la nostra barca a galla, sono / troppe le falle a poppa e a prua». Insomma, la coincidenza vuole che proprio nei giorni di quel turbolento ’92 in cui Spadolini, presidente del Senato, è candidato alla massima carica dello Stato, emerga un’allusione profetica di Montale all’attualità. Per di più, il poeta allude all’«Onorevole» quando ancora Spadolini non è entrato in politica. Incongruenza curiosa, che viene corretta quando la poesia compare nel Diario , dove porterà una data diversa: 1976. Ravvedimento postumo del poeta? O aggiustamento a posteriori a opera della sua curatrice, perché tutti i conti tornino? Quasi tutti, visto che nel ’76 Spadolini è sì senatore, ma non è più direttore.
9. È curioso come la preveggenza di Montale riesca a distribuire, nelle poesie, elogi e stroncature rispettivamente ai sostenitori del Diario (Vico Faggi in primis , amico stretto della Cima, che verrà celebrato dal poeta con un testo ad personam ) e ai suoi denigratori (Giovanni Raboni, che, secondo la Cima, sarebbe l’obiettivo polemico di Montale già in un testo del ’72). Tra le altre inquietanti previsioni indovinate dal Diario ci sono: la data di morte di Sergio Solmi (celebrato con un apposito testo nel decennale della morte, 1991) e la data di morte di Vittorio Sereni (amaramente ricordato in una poesia del ’74, apparsa nel Diario 1993, a un decennio esatto dalla scomparsa). Dunque, nello strutturare in buste l’intera raccolta, Montale avrebbe previsto non solo l’anno della sua morte, ma anche quelli di Solmi e Sereni, oltre al destino di Spadolini e dell’Italia.
10. Escludendo una tale quantità di eventi casuali, la gestione dei testi, con plurimi ritocchi e uscite ad hoc (su cui Condello si sofferma con enorme scrupolo), induce a ritenere che le buste non siano mai esistite.
11. Nonostante le mille dichiarazioni della Cima in contraddizione tra loro, anzi proprio in virtù delle loro incoerenze e nebulosità, non riusciamo a sapere quasi nulla della genesi delle poesie del Diario . Non sappiamo per quali vie vennero consegnate alla destinataria e/o al notaio. Non sappiamo quanti e quali manoscritti siano stati prodotti e poi magari abbandonati nel decennio 1969-79. Né riusciamo a sapere quale fosse l’organizzazione della raccolta. Dulcis in fundo , a rendere ancora più labili le certezze sull’autenticità dell’opera, intervengono gli elementi stilistici di cui parlava un autorevole filologo come Dante Isella. Senza dire della perizia grafologica di Petrucci. Cui ora si aggiunge l’analisi (contenuta nel libro di Condello) di Susanna Matteuzzi, avvocato e consulente grafologico del Tribunale di Bologna. Sia pure ancora in fase di elaborazione, fondandosi necessariamente sugli unici documenti disponibili (cioè i facsimili editi dalla Cima), la perizia giunge a una conclusione non dissimile da quella del Petrucci: «Dubbi e ombre velano l’autenticità delle firme apposte sulle liriche esaminate».
Ci si chiede, in definitiva, come sia possibile, in mancanza di precisi chiarimenti, che il cosiddetto Diario postumo circoli ancora in libreria sotto il nome di Montale e con la sigla della Mondadori. È ora auspicabile che il decisivo saggio di Condello suggerisca agli eredi del poeta, dopo diciassette anni dal famoso saggio di Isella intitolato Dovuto a Montale , un’iniziativa a salvaguardia del buon nome del loro familiare: dopo i diritti (economici), anche i doveri (morali). Sarebbe Dovuto a Montale, Dovuto ai lettori e Dovuto a Isella , il quale, fino a prova contraria, ne è stato uno dei massimi esegeti e difensori.