Maria Teresa Meli, Corriere della Sera 9/7/2014, 9 luglio 2014
RENZI E L’IMBUTO DEI DECRETI ATTUATIVI: «UNITÀ DI MISSIONE» A PALAZZO CHIGI
ROMA — Messa sui «giusti» binari la questione delle riforme del Senato, «parlamentarizzati» i grillini, che, «tra l’altro, sono divisi fra di loro», Matteo Renzi affronta ora nuovi temi. Su Twitter mostra la foto della sua scrivania a Palazzo Chigi e chiosa: «Al lavoro su terzo settore, Ilva, semplificazione amministrativa». Ed è quest’ultimo versante, al momento, il più delicato e importante. «Semplificare e sveltire: solo così possiamo fare la nostra rivoluzione soft».
Già, ma un follower fa notare al premier che c’è un intoppo: mancano all’appello, così come aveva scritto il Corriere , tanti decreti attuativi delle leggi approvate da questo e dai precedenti governi. Che fare? Renzi non si sottrae alla domanda: «È una questione molto seria. Ne parliamo giovedì in Consiglio dei ministri. Così non va bene». Sì, il presidente del Consiglio non è per niente soddisfatto di questo andamento. Tant’è vero che nel provvedimento sulla pubblica amministrazione aveva fatto inserire due norme cui teneva molto proprio per evitare questo problema. La prima era quella che riguardava il cosiddetto «silenzio-assenso» sui concerti tra i vari ministeri. Ossia, quando il decreto di un ministro deve ricevere l’approvazione anche di altri dicasteri (e in genere si tratta quasi sempre di quello dell’Economia), se, scattati 60 giorni, non arriva nessuna risposta, il «via libera» si dà per acquisito. La seconda norma, definita anche questa dai renziani «una vera e propria bomba», affidava a Palazzo Chigi la possibilità di avocare a sé i provvedimenti attuativi nel caso i cui i ministeri a cui erano affidati si dimostrassero inadempienti. Insomma la presidenza del Consiglio si assegnava poteri sostitutivi per evitare le solite lungaggini di sempre.
Ma le due norme, dopo il passaggio del provvedimento sulla pubblica amministrazione al vaglio degli uffici del Quirinale, erano scomparse perché si era ritenuto che mancassero i requisiti di necessità e di urgenza. Ora la questione che si pone è come reintrodurre questa velocizzazione. Difficile riscrivere le norme pari pari nel provvedimento. Si pensa quindi di affidare al Parlamento la possibilità di introdurle nuovamente. Per intendersi: un gruppo di parlamentari, durante i lavori d’aula, potrebbe presentare una modifica in tal senso. Non solo: Renzi sta meditando di mettere in piedi un’unità di missione a Palazzo Chigi che si occupi dello smaltimento dei decreti attuativi arretrati. Una struttura, insomma, che si dedichi mane e sera a questo più che impegnativo lavoro, visto che vi sono provvedimenti che risalgono addirittura al 2006. E sarà Renzi in persona, con i suoi più stretti collaboratori, a fare pressing sui ministeri interessati.
Insomma, il presidente del Consiglio non molla la presa «contro i mandarini e le resistenze della burocrazia». E, del resto, sa che non può concedersi il lusso di farlo, perché solo riforme realmente attuate gli consentiranno di «far vincere» la sua «linea in Europa». La Ue vuole la dimostrazione che il nostro Paese è veramente in grado di fare le riforme annunciate. E Renzi non vuole perdere né il tempo né la possibilità di «ridare credibilità all’Italia». In questo senso, ieri, l’apertura di Juncker a un commissario socialista all’Economia (forse il francese Moscovici) è stata apprezzata dal premier: «Non so ancora chi sarà, ma intanto so che non toccherà agli Olli Rehn di turno». Per questo Renzi era soddisfatto e non ha trovato sgradite nemmeno le conclusioni dell’Ecofin sulle riforme: «Sono una piena conferma della nostra impostazione sull’Europa».
Renzi ha già cominciato a dare un impianto alla sua idea di flessibilità: «Non chiederò nessuna mancia per l’Italia e non verrò meno agli accordi presi, ma voglio che l’idea che la crescita sia l’orizzonte del rilancio europeo, che mi pare ormai incassata, lo sia effettivamente e definitivamente». Unico neo di non poco conto nella giornata di ieri la dichiarazione del vicepresidente della Commissione Ue Siim Kallas: «Nessuna spesa può essere esclusa dal calcolo del deficit». Una risposta a Renzi che in mattinata aveva sottolineato come fosse necessario escludere dal patto di Stabilità gli investimenti in infrastrutture digitali. «È un segnale di chiusura — è stato il commento del premier —, rivela un atteggiamento miope, che non vuole fare i conti con una realtà che sta cambiando in Europa. E non nel senso di avere meno rigore, ma nel senso di coniugarlo con un’idea intelligente e responsabile di crescita».