Paolo Berizzi, la Repubblica 8/7/2014, 8 luglio 2014
LE MEMORIE DI UN FUGGIASCO “IO, EVASO A MIA INSAPUTA”
MILANO
Se non ti chiami Vallanzasca o Maniero, se sei un signor Cutrì qualunque e hai già passato tre anni alla macchia, allora puoi anche raccontare che un giorno sei evaso a tua insaputa lasciando alle spalle il Far West e un fratello sull’asfalto. «Io voglio tirarvi via tutte le curiosità che avete voi e tutto quello che ho dentro, in qualche modo». Iniziano così le memorie di un fuggiasco. Faccia rotonda, occhi liquidi, felpa a rombi. Per sei giorni - a febbraio - il signor Cutrì, ergastolano, ha tenuto sotto scacco gli apparati dello Stato dopo un’evasione rocambolesca e sanguinaria dal tribunale di Gallarate. Scappato il 3 sotto una pioggia di proiettili. Preso il 9 con una 357 magnum pronta a far fuoco. In mezzo: un morto (il fratello Nino, il basista dell’evasione), due feriti (gli agenti di scorta) e una banda scalcagnata finita in rete.
«Mi chiamo Domenico Cutrì, detto Mimmo, nato a Cuggiono il 4 luglio 1982... Prima avevo un’agenzia di scommesse a Bareggio, poi un po’ di settore immobiliare». Il dopo è un inferno da chiudere a chiave. Cinque mesi dopo Gallarate, Repubblica racconta «l’evaso a sua insaputa» attraverso gli interrogatori inediti di Cutrì di fronte al pm Raffaella Zappatini (quattro: 21 febbraio, 1-4-11 marzo). È un lungo filo criminale che parte, ironia del caso, dai «fili». «Era un anno e mezzo che dentro il carcere, o di Alessandria o di Saluzzo, non mi ricordo, ai colloqui chiedevo a mio fratello Nino di procurarmi dei fili per riuscire a evadere. Fili diamantati. Per tagliare le sbarre». Cutrì era in carcere dal 2009: ergastolo per aver ordinato (e commesso, confesserà il primo marzo, ndr) l’omicidio di un giovane polacco che si era allargato con la sua fidanzata. Ha abitato in quattro prigioni: Alessandria, Saluzzo, Cuneo, Busto Arsizio. «Dopo la condanna in appello stavo impazzendo. L’unico pensiero che mi dava forza era questa cosa di scappare». Nino è pronto. «Mi diceva che avrebbe dato la sua vita per farmi evadere. Ma io non gli avrei mai chiesto di mettere in piedi una cosa del genere... Se lo avessi fatto, dopo la sua morte mi sarei ammazzato». Nino pensava a un piano in grande. «Aveva questa ossessione di farmi scappare. Tra me e Nino c’era un’ alchimica che non le so spiegare. Ma gli dissi “aspetta Nino, tra due mesi c’è la Cassazione...”».
Tre febbraio 2014, Gallarate. «Scendo dalla camionetta e mi accorgo che c’è qualcosa di strano. Dopo i primi passi vedo un po’ di confusione. Due persone vicino a un cartellone. Una mi sembrava mio fratello Daniele (il più piccolo, uno del commando, poi arrestato, ndr ). Avevano tutti il cappello fino a qua. Mentre salgo le scale mi trovo gli agenti davanti e sento pizzicare subito negli occhi. Tutto dura 10 secondi. Appena vedo lo spray, il peperoncino nell’aria, mi tiro l’agente che cade a terra. Lo tiro per le manette, lui molla e vado verso il furgone». Chi c’era a liberare Cutrì? «Vedo mio fratello, Greco e Cortesi (in tutto i membri della banda arrestati sono otto). Sento gridare “la macchina è là”». La voce è di Christian Lianza, le perizie accerteranno che a uccidere Nino Cutrì è stato il fuoco amico partito dalla sua pistola. Mimmo evade a sua insaputa. «Non sapevo quello che sarebbe successo quel giorno, ma quando ho visto che c’era l’occasione di andare via, sono andato». Due auto. «Salgo sulla jeep Qashqai, da solo. Un’altra auto nera davanti, (la C3) fa retromarcia e mi butto dentro». Nino Cutrì è colpito da due proiettili, uno mortale. «All’inizio non mi sono accorto di niente. L’ho visto alla guida, poi si è accasciato.
Non rispondeva, sono andato nel panico. Uno aveva i piedi fuori dal finestrino, io ero in avanti con le manette». La fuga prosegue su un furgone. «“E Nino?”, ho detto. Lo porto io all’ospedale, mi fa uno. Ho realizzato quando siamo arrivati in montagna (il primo covo a Cellio, in Valsesia, ndr) e ho sentito la radio. La tv non funzionava. Non ho mai visto la tv da quando sono evaso». I complici gli parlano ma Cutrì è una sfinge. «Mi davano fastidio tutti». Armata di una 357 magnum, di un seghetto e di una tenaglia, la banda è già sfilacciata. Ha perso Nino, il capo, l’ideatore, il più duro del gruppo. «Abbiamo tagliato le manette e le ho buttate. Ero come un pazzo, tiravo pugni contro il furgone. Arriviamo in casa la sera, c’era Carlotta, la ragazza di mio fratello col bambino. Era la prima volta che la vedevo». Il covo, dunque. «Piccolo, pieno di valigie. Mi sentivo soffocare. Passiamo la notte stesi a terra tutti in una stanza».
Come inizia una latitanza? «C’era di tutto in casa, scatoloni, cibo, da bere, fusti di vino, marijuana. Carlotta mi dà la busta coi soldi, 2 mila euro, e il telefono. Le faccio spegnere il suo». Passano tre giorni e Cutrì lascia il Piemonte.
«Prendo la marijuana dal cassetto - l’avevamo fumata sempre in casa - la pistola 357, vestiti, lenzuola, un orologio, un bracciale. Parto con Greco in furgone». Direzione Milano. «Speravo di avere dei documenti pronti. Quando ero latitante nel 2006 me li faceva mio fratello col computer. Si tamponava un’auto, si faceva l’assicurazione col mezzo e si prendevano i dati, e con quei dati si faceva la patente. Così potevo andare anche in hotel. Con questo metodo nel 2006 sono riuscito a restare latitante 3 anni. Primo anno quasi mai uscito di casa. E all’inizio dormivo in tenda». Torniamo al 2014. «La mia idea - racconta Cutrì - era di prendere una casa in affitto. Guardando gli annunci degli affitti, con un po’ di parlantina riesci a convincere i proprietari ad affittare senza documenti. Ma ero in palla. I primi quattro giorni sono stati bruttissimi, mi chiedevo “ma dove sono arrivato?”». Il telefono, una fissa. «Mai usato. Ci fermavamo alle cabine, facevano i numeri a memoria». Come quello di Franco Cafà, il complice che procura il nuovo rifugio a Inveruno. A due passi da casa Cutrì. «Era una fesseria ma volevo passare dai miei, anche se non potevo andare al funerale di Nino». Ogni latitante sogna di espatriare. «Mi serviva un documento per andare all’estero. Ci pensavo, non mangiavo niente perché nello scatolone era rimasta solo la farina. Impastavo acqua e farina. Per fortuna abbiamo trovato del pane per la galline». Senza dormire e senza mangiare. A Inveruno. Tre giorni. «Non riuscivo a ragionare lucido più di mezz’ora. Quando Luca usciva per prendere del cibo diventavo paranoico ». Intanto mamma Cutrì esortava il figlio a scappare («fallo per tuo fratello»). «In realtà i miei speravano mi consegnassi».
Come è andata a finire in quel covo si sa. Arrivano i carabinieri. Game over. «Ricordo che la Beretta era l’arma più maneggevole. Altre armi le abbiamo fatte sparire, sciolte». Primo marzo 2014. Anche Cutrì si scioglie. «Dottoressa - fa al pm Zappatini -. Voglio dirle al verità anche sull’omicidio di Trecate, quello da cui è nato tutto. Sono stato io a sparare a Lukasz Korbzeniecki, avevo 23 anni. Per nascondere le tracce prima ho sciolto la pistola, poi ho fatto la ceretta alla mano per rimuovere la polvere da sparo dai pori». Funziona?, chiede la pm. «Sì, funziona».
Paolo Berizzi, la Repubblica 8/7/2014