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 2014  luglio 08 Martedì calendario

PER L’INCHINO AL BOSS ORA SOTTO ACCUSA FINISCE IL SACERDOTE

OPPIDO MAMERTINO - In questo cuore della Calabria malata di ’ndrangheta regna incontrastato un silenzio assordante. Anche alle 7 della sera, quando il paese si risveglia dal torpore del solleone. E si popola di fantasmi. Uomini e donne ombre di se stessi per la tenacia con cui negano l’evidente.
A partire da don Benedetto Rustico, 50 anni, che prima guida la processione verso la casa di Peppe Mazzagatti - boss condannato all’ergastolo, ai domiciliari solo per i suoi 82 anni e una grave malattia - e ora dichiara che «a saperlo avrei cambiato percorso» e che comunque «non esistono legami o connivenze tra la chiesa e mafia».
Don Benedetto non dice però di essere parente di Peppe Mazzagatti, la cui figlia Francesca ha sposato suo cugino, Carmelo Rustico. Quel Carmelo Rustico coinvolto nella faida tra le cosche di Oppido.
Ed è una. Poi c’è la bacchettata al maresciallo Andrea Marino, evidentemente reo agli occhi del prelato di aver avuto l’ardire di abbandonare la processione e filmare quello che stava succedendo. Videoriprese ora all’attenzione della Dda di Reggio Calabria che ha aperto un’inchiesta sull’omaggio reso al capobastone della ’ndrangheta.
«Mi dispiace che non ci siamo capiti bene con il maresciallo dei carabinieri - spiega ora il don Benedetto -. D’altronde non abbiamo avuto nessuna intimidazione a non fare questa cosa». Peccato però che il sottoufficiale avesse convocato prete, comitato organizzatore, e pure gli amministratori locali per suggerire di non commettere sciocchezze. «Ci dissi assai di chiù - racconta in dialetto uno dei 60 portantini della vara, la struttura per sorreggere a spalla la statua -. U maresciallu ci dissi ca si nui facivamu favori au boss, abbandonava ’a processioni». E ha mantenuto la parola.
Con una fermezza pari a quella che ieri avuto il presidente dei vescovi calabresi, monsignor Salvatore Nunnari. «Basta con le processioni - ha sentenziato - perché sotto la vara può capitare il mafioso di turno che fa poi il capo. Se io fossi il vescovo di quel paese per un po’ non farei più processioni». E ancora: «Dispiace che i preti non abbiano avuto il coraggio non di andare via ma di scappare dalla processione. Quando i carabinieri hanno lasciato, i preti dovevano scappare dalla processione. Avrebbero dato un segnale e di questi segnali abbiamo bisogno».
Parole come pietre. Ma se queste servono a rinsaldare i valori della comunità cristiana e della legge, sono invece pietre roventi, che bruciano sulla memoria dei morti ammazzati, quelle delle figlie di Peppe Mazzagatti. Giovanna, capelli raccolti in una coda e abito rosso, difende l’onore del padre sopra ogni cosa: «Ma quale ’ndrangheta e ’ndrangheta. Qua non esiste e non è mai esistita. Qua siamo tutta gente onesta. Mio padre, poi, ha lavorato tutta una vita, s’è spaccato la schiena onestamente». L’ergastolo per omicidio e associazione mafiosa? «Tutte bugie, tutte falsità. Come l’inchino della statua della Madonna: non è vero, non è arrivata fino a qua, ma solo all’incrocio. E poi sono trent’anni e più che fa sto’ percorso. Cosa c’entra mio padre?».
Sua sorella Domenica, Mimma, ha per occhi due pozzi neri di odio: «Noi siamo gente di chiesa! Questo pandemonio che avete creato è una vergogna». Poi il doppio affondo. Il primo, a sfondo religioso: «Il Signore grida vendetta!». Il secondo, contro il maresciallo e il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, che ha definito l’oltraggio della processione «una sfida della ’ndrangheta alle parole del Papa».
Troppo per Mimma Mazzagatti che tuona: «Ma che vuole stu’ Gratteri? E il maresciallo di che s’impiccia? Io non ce l’ho con i carabinieri, ma con quel maresciallo sì».
Strali infuocati e implicite pressioni. Per non parlare delle morbide posizioni della classe politica. Il neo sindaco di centro destra Domenico Giannetta: «La processione fa la stessa strada da 30 anni. Ho peccato in leggerezza a non abbandonarla. Aspettiamo esito delle indagini ma siamo già pronti a costituirci parte civile». Molta gente, intanto, reagisce infastidita al can can mediatico: «Mi ha telefonato persino un parente emigrato in Australia» afferma un muratore preoccupato per «la brutta immagine che state dando al nostro paese». Per trovare un po’ di autocritica bisogna accontentarsi di due adolescenti sedute sui gradini poco dopo il municipio. «I miei genitori la pensano come me - confida la quindicenne -, quell’inchino non andava fatto. La verità è che qui tanti hanno paura». «Mi aspetterei più impegno da parte dei giovani» incalza la diciassettenne. Ma ha l’accento di Milano. È a Oppido solo in visita ai nonni paterni.
Grazia Longo, La Stampa 8/7/2014