Maurizio Stefanini, Libero 08/07/2014, 8 luglio 2014
«YANKEE GO HOME» ANCHE AL CINEMA E PECHINO SI FA LA SUA HOLLYWOOD
«La cinematografia è l’arma più forte», fu il celebre slogan creato da Benito Mussolini il 21 aprile 1937, nell’inaugurare gli stabilimenti di Cinecittà. Una cosa talmente vera, che infatti la stessa Italia fascista si trovò completamente travolta non solo dal superiore potere industriale della macchina bellica statunitense, ma anche dalla superiore capacità di Hollywood di far sognare il mondo. Ed è un soft power che, ulteriormente moltiplicato dalle serie tv, dà tuttora agli Stati Uniti un asset importantissimo, pur in tempi di bilanci militari tagliati e di capacità manifatturiera sempre più battuta in breccia dalla concorrenza degli emergenti. Solo l’India, tra questi, con la sua Bollywood è riuscita a creare qualcosa di equivalente, anche se i suoi schemi naif funzionano poco in Europa e Nord America, pur spopolando nel Terzo Mondo.
Ma adesso il Partito Comunista Cinese ha deciso di prendere la cosa in mano. «La Cina è avanzata sul mondo con la gamba economica, adesso deve farlo con la gamba culturale», è il tenore di un recente documento, accompagnato da un pacchetto di stimolo annuale da 163 milioni di dollari appena reso noto. Come spiega l’agenzia Xinhua, «questo investimento in soft power deve promuovere l’uso di alta tecnologia nell’esportazione e produzione di film altamente commerciabili, così come la creazione di siti web professionali per appoggiare l’industria cinematografica». Si parla di esenzione dall’Iva fino al 2018 e dell’ordine a banche e istituzioni finanziarie di investire nel settore. Gli Studi Mondiali di Hengdian, con la copia in scala reale della Città Proibita di Pecchino, sono già uno degli studi di registrazione più grandi del mondo, equipaggiato con una piscina gigantesca per le registrazioni subacquee e vari settori speciali. Ma dal settembre dell’anno scorso nella città costiera di Qingdao è iniziata la costruzione di un altro complesso cinematografico che quando tra 2016 e 2017 sarà finito sarà il più grande del pianeta. I soldi li ha messi Wang Jianlin: secondo Forbes, l’uomo più ricco della Cina. Nel progetto c’è uno studio cinematografico da 10.000 metri quadri, un museo delle cere e del cinema, un centro di proiezione con sale per 4000 persone, otto complessi alberghieri, ristoranti e bar. E negli ultimi 4 anni in Cina le sale cinematografiche sono passate da 6200 a 20.000, nel solo 2013 se ne sono create 14 al giorno.
Volontà politica e soldi, dunque, ci sono. Ma basteranno? La capacità dell’industria cinematografica cinese è già stata dimostrata a livello internazionale da kolossal come L’ultimo imperatore di Bertolucci o il Marco Polo televisivo, ma in quei casi c’era di mezzo un decisivo know how straniero.
Per il resto, i registi cinesi sono spesso premiati nei festival e non è mancato qualche titolo diventato famoso. Da Lanterne rosse a Addio mia concubina a La foresta dei pugnali volanti. Ma, restando al soft power, non c’è paragone con la capacità di penetrazione di cartoni animati, manga e certi registi giapponesi. E l’esempio del Giappone, un Paese orientale che agli occhi dell’Occidente è altrettanto esotico, mostra il limite di un’analisi come quella di Li Chow: una dirigente della Sony Distribution China, secondo cui il problema sarebbe che «la maggior parte degli stranieri non hanno conoscenza su storia o norme sociali della Cina e, di conseguenza, non ne capiscono il significato e le trovano noiose». Per via della mancanza di libertà spesso i prodotti cine e tv made in China sembrano noiosi agli stessi cinesi, come dimostra il tenore delle polemiche quando la censura governativa ha impedito lo streaming di popolari sit com tv Usa come The Big Bang Theory: «Se voi foste capaci di produrre serie tv che non offendano l’intelligenza degli spettatori, credete che sprecherei tanta energia a cercarmi delle serie straniere?».