Sandro Mazzola, Corriere della Sera 8/7/2014, 8 luglio 2014
ERA IL DIO DEL CALCIO, SAREBBE IL N. 1 ANCHE OGGI
Di Stefano era il mio idolo di ragazzo, mi ricordava un po’ mio papà, almeno, per come me lo avevano raccontato, mio papà in campo lo immaginavo come lui. A casa non avevamo la tv, io andavo all’osteria a vedere le finali di Coppa dei Campioni: se prendevi un bicchiere di spuma Giommi ti facevano vedere la televisione. La Rai, se non c’erano italiane in corsa, trasmetteva solo le finali e il Real Madrid in finale c’era sempre. Io ero innamorato di Di Stefano. Così, quando siamo andati noi dell’Inter in finale a Vienna e me lo sono ritrovato di fronte come avversario, all’inizio sono rimasto incantato a guardarlo. Eravamo nel sottopassaggio, per andare in campo bisognava passare sotto le tribune; non era ben illuminato, nella penombra Di Stefano mi sembrava alto due metri: era il dio del calcio. A quel punto Suarez mi ha dato una pacca sulla spalla e mi ha scosso: «Senti, noi andiamo a giocare una finale, tu che fai? Stai qui a guardare Alfredo?». A sentire quel nome, Alfredo, mi sono svegliato. Abbiamo vinto, io ho segnato due gol e ovviamente alla fine volevo scambiare la maglia con Di Stefano. Al fischio finale, però, mi viene incontro Puskas, il numero 10, e mi dice: «Senti ragazzo, ho giocato contro tuo padre, tu sei degno di lui, tieni la mia camiseta». Ovviamente era un onore, non potevo certo rifiutare, però io avrei voluto la maglia di Di Stefano. Per me era lui il numero 1: incitava i compagni, era un 9 che sapeva giocare in tutte le zone di campo, andava a prendersi la palla anche davanti alla difesa. Era modernissimo, per questo dico che oggi sarebbe ancora il numero 1. Da dirigente mi è ricapitato di incontrarlo, ma non sono mai andato oltre i saluti: per me restava il dio di quel ricordo.