Domenico Calcagno, Corriere della Sera 8/7/2014, 8 luglio 2014
DI STEFANO GENIO DEL PALLONE. IL PRIMO GIOCARORE TOTALE
È morto a 88 anni Alfredo Di Stefano. Il presidente onorario del Real Madrid era ricoverato al Gregorio Maranon Hospital della capitale spagnola. Sabato era stato colpito da un infarto. Di Stefano ha vinto otto scudetti e cinque Coppe dei Campioni con il Real ed è considerato uno dei migliori giocatori di tutti i tempi.
Alfredo Di Stefano era nato a Buenos Aires il 4 luglio 1926. A inizio carriera aveva giocato nel River Plate, Huracàn e Millonarios, prima di trasferirsi nel 1953 al Real Madrid e diventarne un simbolo tanto da essere nominato presidente onorario nel 2000. Ha chiuso la carriera nel 1966 con l’Espanyol. Ha giocato per due nazionali: 6 partite con l’Argentina e 31 con la Spagna,
senza mai disputare un Mondiale. Ha allenato Elche, Boca Juniors, Valencia, Sporting Lisbona, Rayo Vallecano, Castellón, River Plate e Real Madrid conquistando 5 trofei, tra i quali una Supercoppa
di Spagna con il Real e una Coppa delle Coppe con il Valencia. Da giocatore ha vinto 13 campionati (8 con il Real Madrid, 3 con il Millonarios e 2 con il River Plate); una Coppa di Colombia e una Coppa di Spagna. In Europa con il Real ha conquistato 5 Coppe dei Campioni, 2 Coppe Latine e una Coppa Intercontinentale. Con l’Argentina ha vinto una Coppa America nel 1947. Senza dimenticare i 2 Palloni d’Oro nel 1957 e nel 1959.
La particolarità dei geni è di anticipare quello che verrà dopo. E non c’è dubbio che Alfredo Di Stefano abbia un posto riservato nel ristrettissimo club. Era un centravanti, ma un centravanti come non se ne erano mai visti. Giocava dappertutto. Se lo marcava un difensore arretrava nel cuore del gioco. Se lo seguiva un mediano avanzava. Difendeva, impostava, segnava, faceva segnare e vinceva. È stato il primo giocatore totale, apparso in un calcio fondato sulla suddivisione netta di compiti e ruoli. Ovunque giocasse Di Stefano faceva la differenza, perché era la differenza. E se non cambiò radicalmente il gioco è perché all’epoca era un pezzo unico, inimitabile. Solo Valentino Mazzola, tra i suoi contemporanei, aveva caratteristiche simili.
Nato a Buenos Aires il 4 luglio 1926, figlio di Alfredo, stesso nome, un italiano partito da Capri che aveva giocato nel River e nel Boca, e di Eulalia Laulhe Gilmont, sangue francese e irlandese, il giovane Di Stefano crebbe a Barracas, quartiere dove la vita era dura e a volte pericolosa. Dove «giocavamo partite infinite, tutti contro tutti, sospese solo quando faceva troppo buio per vedere la palla». Capì immediatamente di essere più bravo degli altri e che il calcio avrebbe potuto portarlo lontano. A 15 anni è già il piccolo fenomeno delle giovanili del River, il club della borghesia di Buenos Aires, a 16 è in prima squadra. Comincia a collezionare soprannomi (la «saeta rubia», la freccia bionda, lo accompagnerà per tutta la carriera, anche quando i capelli se ne erano andati), e si rende conto in fretta che di soldi, in Argentina, non se ne possono fare molti. Si guarda attorno e sceglie la Colombia, i Millionarios (un nome che è una promessa) di Bogotà. Il campionato colombiano è stato messo fuorilegge dalla Fifa, ma gli ingaggi cancellano i dubbi. Gioca con i Millionarios per tre anni, finché le minacce di squalifica non si fanno consistenti e la squadra di Bogotà gioca un’amichevole con il Real. È uno choc, lo vogliono a Madrid e a Barcellona. Santiago Bernabeu si accorda con i Millionarios, l’inviato del Barça, Pepe Samitier, con il River, che era rimasto proprietario del cartellino. Vince il Real, anche perché i catalani si fanno da parte sdegnati immaginando (forse non a torto) l’intervento del generale Francisco Franco e a 27 anni Di Stefano trova il club e la città della sua vita.
Era uno squadrone il Real, c’erano Kopa, Puskas, Gento, Santamaria. Ma Di Stefano lo rende imbattibile. Otto scudetti e cinque Coppe dei Campioni (segnando in tutte e cinque le finali) dal ‘53 al ‘64, 396 partite e 307 gol tutto compreso. Poi le ultime due stagioni all’Espanyol, il ritiro a 40 anni e altre 25 passate a far l’allenatore (anche al Boca Juniors e al Real) con cinque titoli (due campionati argentini, uno spagnolo e una Coppa delle Coppe nell’80 con il Valencia) fino a diventare, il 5 novembre del 2000, presidente onorario del Real, l’immagine, la faccia della squadra più famosa (e ricca) del mondo.
Ha vinto e rivinto tutto con i club, solo una Coppa America, nel ‘47, in Ecuador con l’Argentina, una delle sue due nazionali. Di Stefano ha vestito sei volte la maglia albiceleste (6 i gol) e 31 quella rossa della Spagna (23 gol), ma non ha mai partecipato a un Mondiale. Nel 1950 giocava in Colombia ed era quindi fuori dal giro, nel ‘54 l’Argentina non arrivò alla fase finale e quattro anni dopo non ci arrivò la Spagna. Nel ‘62, in Cile, l’ultima occasione, fu un infortunio muscolare a impedirgli di giocare. Eppure solo a lui, in 50 anni, «France Football» ha assegnato il «Superpallone d’oro», riconoscimento unico per un giocatore unico.
Amava i soldi, gli abiti eleganti, il lusso. Ma non ha mai saltato un allenamento ed era un professionista scrupoloso, attento, maniacale. Per questo riuscì a giocare fino a 40 anni, segnando 485 gol. Come tutti i fuoriclasse semplificava, giocava di prima, vedeva spazi e traiettorie che gli altri non potevano nemmeno immaginare. Con lui il calcio sembrava facile, lineare, elementare, ma era un’illusione.
Per molti è stato il miglior giocatore di tutti i tempi, per Gianni Brera era meglio di Pelé e di chiunque. «Uno dei migliori, probabilmente il migliore» per Bobby Charlton. Un idolo e un bersaglio per un gruppo rivoluzionario anti-franchista che nel ‘63, durante una tournée in Venezuela, lo rapì e lo tenne prigioniero per due giorni per avere la certezza di essere ascoltato. Un uomo che ha segnato un’epoca senza mai dimenticare come e per merito di chi. Nel giardino della sua casa, a Madrid, c’è la riproduzione in bronzo di un pallone. E sotto la palla ci sono scritte due parole: «Grazie vecchia».
Domenico Calcagno