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 2014  luglio 08 Martedì calendario

QUANT’ERA ESAUSTA E RISSOSA L’ITALIA DI VITTORIO VENETO

La Grande guerra «costò» all’Europa 15 milioni di morti su un totale di 120 milioni di maschi adulti mobilitati. I feriti furono più di 34 milioni (tra cui 8 milioni di mutilati e invalidi) e 11 milioni i prigionieri, decine di migliaia dei quali morti nei campi di prigionia. Tra i prigionieri, nota Marco Mondini nell’avvincente La Guerra italiana. Partire, raccontare, tornare , che sta per essere pubblicato dal Mulino, 600 mila circa furono italiani, la metà dei quali caddero nelle mani del nemico dopo la disfatta di Caporetto: una cifra altissima, se confrontata con quella corrispettiva dei francesi (520 mila), dei britannici (180 mila) e persino dei tedeschi (800 mila, ma su un numero di richiamati alle armi che era il doppio del nostro). L’Italia per di più considerò gran parte dei propri prigionieri alla stregua di disertori o quantomeno gente che si era arresa senza combattere e, di conseguenza, li aiutò ben poco. Nel 1917, sempre all’epoca di Caporetto, fu dichiarato da fonti ufficiali che i disertori italiani ammontavano a ben 55 mila, senza far cenno alla circostanza che, di questi, 30 mila erano poi rientrati spontaneamente nei ranghi.
Unica fra le grandi potenze in lizza, l’Italia affrontò la guerra non all’improvviso, ma, scrive Mondini, «dopo quasi un anno di tentennamenti e trattative». Se gli altri europei «scivolarono» nel conflitto inconsapevolmente, i governanti italiani ci entrarono in piena coscienza, «il che non vuol dire che avessero pienamente compreso ciò che stava succedendo; i lunghi mesi di neutralità servirono poco per preparare il Paese e l’esercito, ma in compenso alimentarono uno scontro sull’opzione dell’intervento, la cui violenza non trova eguali nell’Europa del 1914». Nelle grandi città italiane, l’annuncio delle ostilità non fu una sorpresa. Quando il governo chiese ai propri prefetti di informarlo su quale sarebbe stata la reazione della popolazione di fronte all’intervento (ormai deciso) dell’Italia, si sentì rispondere che, dopo mesi di tentennamenti, annunci, smentite e voci, l’idea della guerra era «entrata nella pubblica coscienza»: pochi la volevano, ma tutti vivevano come se quella che già veniva chiamata «la Grande guerra» fosse inevitabile. Che la «si fosse a lungo temuta come il peggior incubo o attesa ansiosamente come una grande occasione», la guerra fu accolta, per usare le parole del giornalista Ugo Ojetti, «come la liberazione da una lunga febbre che non voleva finire».
Mondini definisce la Prima guerra mondiale per quel che riguarda l’Italia «un paradosso» contraddistinto da «bizzarre antinomie». Il nostro intervento nel conflitto europeo fu presentato come l’ultima campagna del Risorgimento, che avrebbe consentito finalmente a tutti gli italiani di far parte di un unico Stato nazionale. Ma «il governo che condusse il Paese in guerra aveva poco in comune con le idealità del nazionalismo romantico e democratico di Mazzini o con l’ispirata strategia politica di Cavour… Per combattere contro i propri ex alleati, il presidente del Consiglio, Antonio Salandra, e il suo ministro degli Esteri, Sidney Sonnino, pretesero la cessione del territorio di Bolzano, popolato da 250 mila austro-tedeschi, ma lasciarono al suo destino la città di Fiume, abitata da una popolazione di lingua e di cultura italiana».
Non dimentichiamo poi che il tradimento del patto — che ci legava dal 1882 all’Impero austroungarico e a quello tedesco — non fu indolore. Nemmeno ai tempi dell’iniziale dichiarazione di neutralità, dopo la quale l’addetto militare a Berlino, generale Luigi Calderari, si dimise «indignato della slealtà dimostrata dal proprio governo», mentre gli ambasciatori a Berlino e Vienna, Riccardo Bollati e Giuseppe Avarna, contrari ad abbandonare quelli che per 32 anni erano stati i nostri alleati, si opposero così veementemente ad un intervento a fianco dell’Intesa da essere ritenuti inaffidabili, e poi tenuti all’oscuro delle successive trattative avviate dal governo. E ancora. La guerra avrebbe dovuto essere la «prova del fuoco» per il carattere degli italiani, il momento in cui avrebbero dimostrato al mondo di essere una nazione coesa, forte e degna di sedere tra le grandi potenze. E invece «l’Italia entrò in guerra lacerata da profonde rivalità sociali e politiche contro il volere della maggioranza parlamentare e di gran parte della popolazione». Divisioni ideologiche più che radicali, che sopravvissero alla vittoria. Talché, afferma Mondini, si può dire che «l’ultimo colpo di cannone della guerra non fu sparato il 4 novembre 1918 contro gli austriaci, bensì il giorno di Natale del 1920, quando la Regia Marina bombardò la città di Fiume occupata dai legionari dannunziani, in un bizzarro (ma sanguinoso) strascico fratricida del conflitto».
Non è tutto. La guerra che esplose nell’agosto del 1914 ci colse impreparati. Il giorno dell’attentato di Sarajevo, l’esercito italiano contava poco meno di 300 mila uomini sotto le armi, tra ufficiali, sottufficiali e militari di truppa, più 40 mila nella Regia Marina. Il 24 maggio 1915, quando i primi reparti italiani varcarono il confine italo-austriaco, la forza dell’esercito operante, vale a dire il complesso delle unità combattenti effettivamente impegnate al fronte, toccava i 900 mila uomini. Quando la mobilitazione generale venne effettivamente compiuta, con molti giorni di ritardo rispetto alle previsioni, il Regno d’Italia schierava lungo tutto il confine, dal passo dello Stelvio al mare, circa un milione e centomila uomini, più altri 500 mila circa impegnati nei servizi e nei presìdi all’interno della penisola. L’esercito italiano, che il 24 maggio 1915 varcò la frontiera dell’Austria-Ungheria, era dipinto come la parte migliore del Paese, una comunità salda e disciplinata di cittadini in armi, guerrieri superbi devoti al re e ai propri comandanti. Peccato, fa notare Mondini, «che non avesse mai vinto una battaglia sul suolo europeo e che a Adua, nel 1896, fosse andato incontro alla peggiore sconfitta subita da un’armata bianca in Africa, uno scacco eclatante che, insieme alla disfatta di Custoza nel 1866, avrebbe lasciato agli italiani la perpetua fama di pessimi soldati». Il catastrofico andamento delle battaglie combattute dall’Unità d’Italia in avanti, culminate nel doppio tracollo per terra e per mare a Lissa e Custoza nel 1866, aveva per di più avuto «un’eco mediatica enorme», e il disastro di immagine era stato a malapena arginato dai successi personali di Giuseppe Garibaldi, «l’unico eroe combattente popolare e di successo di tutto il Risorgimento, ma anche una figura irregolare e politicamente marginale».
Gli stessi generali, rimarca Mondini, «non avevano fiducia nelle proprie truppe». Luigi Cadorna, capo di stato maggiore e comandante sul campo, era convinto «che la sua armata fosse formata perlopiù da contadini ottusi e operai traviati dalla predicazione socialista, che potevano essere tenuti in riga solo attraverso una disciplina ferrea corroborata da continue punizioni esemplari». Eppure, mette in rilievo l’autore, «quei fanti, alpini, bersaglieri, ritenuti inaffidabili e indisciplinati, si dissanguarono per tre anni in testardi assalti frontali sul peggiore dei fronti europei, tra le alte cime delle Dolomiti e il brullo e roccioso altipiano del Carso, sopportando perdite spaventose senza alcun segno di cedimento». Quando, nell’autunno del 1917, quegli uomini ripiegarono sotto i colpi di una brillante offensiva congiunta austro-tedesca, Cadorna seppe offrire come una spiegazione dell’accaduto la «vigliaccheria» di alcuni reparti e la «fantastica illazione» che altri, sobillati dalla propaganda sovversiva, avessero inscenato uno «sciopero militare». Eppure quegli stessi soldati, alcune settimane dopo il supposto «sciopero militare», seppero dare, sul Piave e sul Monte Grappa, prova di grande determinazione e coraggio. Proprio loro che per quasi due terzi (400 mila su 650 mila) avevano dovuto contare un numero di caduti nelle undici offensive dell’Isonzo davvero impressionante: «Un tasso di mortalità che non aveva nulla da invidiare ai peggiori settori del fronte occidentale».
Non è vero inoltre che da noi (checché ne abbia detto l’agiografia nazionalista postbellica) si sia avuta una mobilitazione giovanile pari a quella degli altri Paesi europei. E se ci fu, ad essa non corrispose poi un marcato impegno nei combattimenti. Il King’s College di Londra perse il 15 per cento dei propri studenti al fronte e oltre la metà degli studenti universitari berlinesi arruolatisi nel 1914 morì nel primo anno di guerra. Da noi la mortalità fra gli studenti fu pari al 6 per cento, «largamente inferiore a quella media del resto dei combattenti e lontanissima dalle vere e proprie stragi registrate nei ranghi degli studenti francesi, britannici o tedeschi». Certo, questo «risparmio di vite tra gli studenti» fu possibile perché molti universitari furono assorbiti nelle armi e nelle specialità più qualificate (e quindi meno esposte al fuoco nemico) dell’artiglieria, del genio e della sanità. E molti furono impiegati in posizioni ancora più sicure, nei comandi di retrovia e negli uffici. Pressoché tutti, o almeno quelli che sopravvissero ai primi mesi di combattimenti, prestarono servizio in qualità di ufficiali di complemento. Tra i 132 caduti dell’Università di Pisa (su 1.500 arruolati) cento erano ufficiali di fanteria e solo cinque morirono indossando la divisa da soldato o graduato di truppa. E «se in un grande ateneo come Padova, dalle cui aule erano usciti ufficiali di tutte le armi, i morti oscillavano mediamente attorno al dieci per cento degli arruolati, le scuole di specializzazione per ingegneri e i politecnici vantavano normalmente tassi di sopravvivenza molto maggiori (al Politecnico di Torino cadde meno di uno studente arruolato su venti)». Altro che giovani ardimentosi come negli altri grandi Paesi europei, di loro si cominciò presto a parlare come di «imboscati».
La fama di imboscati degli addetti all’artiglieria e al genio era così elevata «che i più spavaldi in cerca di gloria tentavano in ogni modo di farsi destinare alla fanteria o alle specialità più pericolose: Paolo Caccia Dominioni, studente al terzo anno di Ingegneria a Milano, nel timore che lo si accusasse di essere un vigliacco, chiese (senza successo) di essere assegnato all’artiglieria di montagna». Qualcuno si accorse che si trattava di una sorta di una strana psicosi a scatole cinesi. Scrisse Silvio D’Amico: «Pei richiamati sotto le armi sono imboscati i borghesi, gli artiglieri che sparano dicono imboscati a quelli che sono ai Comandi… in compenso le pattuglie di fanti che la notte escono oltre i reticolati in ricognizione dicono imboscati ai compagni rimasti in trincea». Il fatto è, osserva l’autore, che «fra coloro che vestivano l’uniforme, alcuni rischiavano la vita quotidianamente, altri solo talvolta, e una folta schiera di privilegiati praticamente mai».
Nell’estate del 1915 alcuni ufficiali guidarono i loro soldati a un qualche massacro (restò celebre l’assalto del colonnello Mario Riveri a forte Basson, dove furono persi 1.100 uomini su 2.800). Molti graduati furono uccisi in imprese come quella di forte Basson e dovettero essere rimpiazzati da ragazzi appena arruolati: gli ufficiali di complemento. Che sarebbero stati oggetto nel 1930 di una forte polemica tra Adolfo Omodeo, che li teneva in buona considerazione («quello di cui c’era bisogno nel nostro esercito», scrisse di loro), e Gioacchino Volpe, che li considerava invece «fatti contro voglia, snidati dagli uffici, ragazzi usciti appena dalla casa paterna, fabbricati in un mese».
È falso che l’uniforme, indossata da questi ragazzi che venivano dalla società civile ed erano stati trasformati in ufficiali di complemento, incutesse soggezione e rispetto. A differenza di quanto succedeva in Germania o in Francia, rileva l’autore, l’uniforme da noi non era affatto un segno di distinzione e chi sceglieva di divenire ufficiale di complemento era attratto normalmente dalla ferma più breve, dal servizio meno faticoso e dalle condizioni di vita migliori, non da una (inesistente) promozione sociale. Gli ufficiali di carriera «trattavano sprezzantemente gli allievi e con indifferenza i subalterni di prima nomina, ritenendo che “non valessero e non sapessero nulla del mestiere”, venendo ricambiati con aperta disistima dai “civili”, i quali non vedevano l’ora di riporre l’uniforme nell’armadio, non manifestavano nessun attaccamento al reggimento (solo un terzo di loro rispondeva ai periodici richiami per aggiornamento) e si guardavano bene dal fare domanda per raffermarsi». Come avrebbe ricordato il generale Emilio De Bono «noi ufficiali permanenti non li prendevamo sul serio e loro ufficiali di complemento se ne infischiavano». Per lui erano stati nient’altro che «ragazzini impacciati». «La vera piaga dell’esercito», secondo il colonnello Angelo Gatti, collaboratore allo stato maggiore di Cadorna, «figli di calzolai, di portinai, gente refrattaria ad ogni spirito di rifacimento morale»
La Prima guerra mondiale, secondo Mondini, è stata sempre ricordata in modo insoddisfacente (eccezion fatta per gli storici dotati di scrupolo). Fino agli anni Sessanta è stata raccontata, dai più, come «una sublime prova di concordia e di unità nazionale, durante la quale il popolo in armi era stato guidato alla vittoria da uomini politici integerrimi, generali autorevoli (sia pure con qualche scelta discutibile) e da una borghesia entusiasta che aveva affollato i ranghi degli ufficiali di complemento». Successivamente si è ecceduto in senso opposto. Dagli anni Settanta in poi, «con l’avvento di una nuova generazione di studiosi legati alla contestazione e ai movimenti di sinistra, i generali sono divenuti carnefici con velleità dittatoriali e i soldati vittime inermi, ansiose solo di sfuggire al combattimento, facendosi passare per pazzi o passando al nemico». Facendosi passare per pazzi? L’impazzimento non fu simulazione. O quantomeno non lo fu in moltissimi casi.
In uno straordinario libro appena pubblicato da Donzelli, Ammalò di testa. Storie dal manicomio di Teramo (1880-1931) , Annacarla Valeriano ha ben ricostruito quel che provocò, a seguito di quell’immane conflitto, «l’orrore dei combattimenti e l’angoscia delle perdite». A partire da quel che annotò, nel suo diario di trincea, lo psichiatra veneto Marco Levi Bianchini, futuro direttore del manicomio della città abruzzese: «Tutti abbiamo la febbre nelle vene e l’angoscia nel cuore: solo lo spirito rimane freddo in mezzo agli ordigni che insidiano ed annientano». Parole dalle quali, secondo Valeriano, emergeva soprattutto «la pervasività della violenza a cui i fanti erano esposti e che avrebbe costituito una delle caratteristiche più peculiari del conflitto: una “brutalizzazione” dello scontro che non colpì soltanto coloro che combatterono in prima linea, ma si estese anche alle popolazioni civili, provocando ferite nel corpo e nell’anima… Le conseguenze psichiche della violenza si manifestarono sotto forme diverse: i nuovi stimoli derivanti dalla “guerra di luci e di scoppi terribili” furono infatti smaltiti dalla psiche dei soldati attraverso una serie di reazioni che continuarono a dispiegare per lungo tempo i loro effetti».
Nel 1923, in occasione del Congresso internazionale di medicina militare, il tenente colonnello medico Placido Consiglio tenne una relazione sulle psicosi e le nevrosi dei militari, in cui affermava che «l’effervescenza della lotta, la paura della morte, l’orgasmo terrificante dello scempio umano e l’azione logoratrice e depressiva della vita nelle trincee» avevano provocato un ottundimento del senso della vita e del pericolo in coloro che erano stati nelle zone di combattimento. In particolare, i contadini. Già nel 1930, Arrigo Serpieri fece rilevare in La guerra e le classi rurali italiane (Laterza), che tra il 1915 e il 1918, su 5.758.277 uomini arruolati, 2.618.234 (46 per cento del totale) erano lavoratori agricoli e la maggior parte prestavano servizio in fanteria, in un reparto cioè destinato a subire il 95 per cento delle perdite. In un altro importante libro, Il nostro soldato. Saggi di psicologia militare (Fratelli Treves Editori), lo psicologo e medico Agostino Gemelli notava nel 1917 come il protrarsi dei bombardamenti fosse in grado di determinare «una tale scossa in tutto il sistema nervoso, una tale inibizione di qualsiasi energia, una tale paralisi di tutta la vita psichica che il soldato è reso incapace di compiere anche il minimo sforzo, subisce qualsiasi cosa, non desidera altro che la fine di tale angoscia, e, rintanato in un cantuccio, nasconde il volto e attende la fine».
Assai particolare fu il caso dei contadini. «Nella retorica militarista, cui si aggiunsero poi le voci della classe psichiatrica», scrive Annacarla Valeriano, «l’atteggiamento di passività dei contadini soldati assunse sfumature ben diverse: la rassegnazione di questi uomini venne celebrata come virtù in grado di apportare un contributo decisivo alla causa nazionale». Nel già citato libro del 1917, Gemelli, tratteggiando la figura di un soldato ignaro delle ragioni per cui combatteva, individuava, nota ancora Valeriano, «nella spersonalizzazione della vita di trincea la caratteristica principale delle classi rurali», che fino a poco tempo prima avevano vissuto (parole di Gemelli) «la vita grama del loro lavoro dell’officina o dei campi», senza alcuna ambizione, ma che in guerra avevano dimostrato il loro adattamento cessando di essere individui e diventando parte di un tutto.
Complicato sarebbe stato, infine, il rapporto tra la Grande guerra e la letteratura. Ma soprattutto quello con il cinema. Nota Mondini che, anche quando nel 1931 il regime decise di soccorrere l’agonizzante cinema nazionale, finanziando le case di produzione, «il 1915-18 continuò a brillare per la sua assenza dallo schermo». Grazie al sostegno pubblico, alla realizzazione di grandiose infrastrutture come Cinecittà (inaugurata nel 1937) e infine anche a misure protezionistiche, il numero di film italiani distribuiti nelle sale crebbe vertiginosamente (18 nel 1932, 83 nel 1940). Ma di questi «solo una manciata» furono dedicati al conflitto del 15-18. Milizia territoriale di Mario Bonnard, Le scarpe al sole di Marco Elter (tutti e due del 1935), Cavalleria di Goffredo Alessandrini e Tredici uomini e un cannone di Giovacchino Forzano (entrambi del 1936) e infine Piccolo Alpino di Oreste Biancoli (1940) «furono tra i pochi tentativi del cinema fascistizzato di raccontare l’evento di fondazione della nuova Italia guerriera, a fronte di decine di produzioni storiche riservate ai grandi condottieri del passato (da Scipione a Giovanni dalle Bande Nere) e alle guerre di Mussolini». Questo a causa della «difficile gestione di un “mito di fondazione” che era stato tutto tranne che consensuale… i ricordi dell’intervento deciso contro la maggioranza del Paese, per non parlare del clima di violenza delle “radiose giornate”, sconsigliavano di indulgere su un capitolo di storia patria tutto sommato delicato».
Si dovette aspettare il 1959 con La Grande guerra di Mario Monicelli (scritto da Luciano Vincenzoni) perché si voltasse pagina nel modo di ricordare il 1915-18. Quel film, afferma Mondini, «finì per rappresentare uno spartiacque per l’immagine pubblica della guerra, tra chi l’aveva raccontata, pur con tutti i suoi orrori e le sue sofferenze, come la grande prova nonché la grande avventura e chi, figlio di una nuova generazione di intellettuali, metteva ora in scena un olocausto vissuto senza entusiasmo e a cui non era più vergognoso cercare di sopravvivere in ogni modo». Toccò dunque al cinema restituirci un’immagine veritiera di quel che era stata per noi l’unica guerra a cui abbiamo partecipato per uscirne da vincitori.