Fabrizio Dragosei, Corriere della Sera 8/7/2014, 8 luglio 2014
ADDIO A SHEVARDNADZE, PROTAGONISTA DEL DISGELO
Mentre le guardie del corpo lo portavano fuori dal Parlamento invaso dai contestatori nel novembre del 2003, il volto di Eduard Shevardnadze indicava stupore più che paura. Lo stupore per essere finito dalla parte dei «cattivi» che aveva combattuto per tutta la vita. Fu cacciato dal posto di presidente della Georgia da una folla inferocita: tutti gridavano contro i corrotti, contro il despota, il tiranno che aveva falsificato, secondo loro, le elezioni. Proprio lui che si era fatto un nome da giovane cacciando i ladri dal partito comunista? Lui che aveva dato vita alla primavera del disgelo nella Georgia di Breznev? Lui che era stato negli anni Ottanta il più acceso sostenitore della riforma dell’Urss e che aveva favorito le scelte di libertà dei Paesi satelliti del Patto di Varsavia?
Prima di morire ieri all’età di 86 anni, Shevardnadze ha avuto la soddisfazione di vedere il suo Paese contestare e cacciare quasi allo stesso modo anche Mikhail Saakashvili, il suo ex pupillo che nel 2003 aveva guidato la rivoluzione delle rose che portò alla sua defenestrazione. Per il resto, in questi ultimi dieci anni, aveva evitato ogni uscita pubblica, rinchiuso quasi permanentemente nella sua casa di Tbilisi.
E oggi tutti lo ricordano soprattutto per il ruolo svolto ai tempi di Mikhail Gorbaciov, quando da ministro degli Esteri impedì che le rivolte nell’Urss e nei Paesi satelliti fossero soffocate nel sangue. E quando favorì la pacifica riunificazione delle due Germanie, separate dopo la guerra. Ma proprio quell’aver consentito lo sganciamento pacifico dei Paesi del blocco e di alcune delle Repubbliche sovietiche gli viene ancora oggi rinfacciato come una gravissima colpa dai nostalgici del Grande Impero. A lui, come all’ultimo presidente dell’Urss Gorbaciov, si imputa lo scioglimento dell’Unione Sovietica che venne poi attuato dal presidente russo Boris Eltsin e da leader di altre Repubbliche.
Nato in un paesino della Georgia, Shevardnadze aveva rapidamente salito i gradini del potere locale negli anni del Dopoguerra, fino a diventare ministro degli Interni e quindi leader del partito comunista georgiano. Sotto di lui, il Paese divenne negli anni della Grande Stagnazione Sovietica il più vivace e il più liberale dell’Unione. Memorabile, poi, era stata la sua campagna contro la corruzione.
Furono questi i meriti che spinsero Gorbaciov, appena diventato segretario generale del Pcus, a chiamarlo a Mosca quale ministro degli Esteri. Sostenne con convinzione la perestrojka, appoggiando il leader sovietico nel suo tentativo di riformare con ogni mezzo il pachiderma sovietico. Quando il nuovo corso moscovita iniziò a innescare le richieste di libertà dei satelliti, lui fece in modo di contenere la reazione del partito. «Uno dei più grandi statisti del secolo passato» lo ha definito Hans-Dietrich Genscher, l’allora ministro degli Esteri tedesco che trattò la riunificazione.Alla fine del 1990 Shevardnadze capì che Gorbaciov stava per finire ostaggio dei conservatori che volevano bloccare le riforme. Denunciò quello che stava accadendo e si dimise. Sei mesi dopo ci fu il tentativo di colpo di Stato restauratore a Mosca. Dopo la fine dell’Urss, tornò in Georgia dove infuriava la guerra civile. Riuscì a riportare la pace e anche a negoziare il cessate il fuoco con l’Ossezia del Sud e l’Abkhazia, le due regioni che si erano proclamate indipendenti da Tbilisi. La sua pace ha retto fino al 2008, quando il successore Saakashvili tentò di riconquistare con la forza l’Ossezia, provocando la reazione russa.
Dopo quei primi anni Novanta, il suo governo della Repubblica caucasica era stato però un fallimento. La corruzione era dilagata, mentre il Paese precipitava nell’indigenza nonostante gli aiuti americani. Così nel 2003 la cacciata di Shevardnadze apparve a molti georgiani come la magica soluzione a tutti i mali. Le cose iniziarono ad andare meglio, la corruzione venne combattuta. Ma poi l’eccesso di nazionalismo portò la Georgia in rotta di collisione col potente vicino. E fu la guerra.
Fabrizio Dragosei