Gigi Garanzini, La Stampa 8/7/2014, 8 luglio 2014
Il calcio piange Di Stefano Mai nessuno grande come lui Centravanti di movimento, con il Real ha fatto la storia e vinto tutto Aveva straordinarie doti tecnico-atletiche: resta un fenomeno irripetibile Gigi Garanzini Prima o poi vedremo un altro Pelè
Il calcio piange Di Stefano Mai nessuno grande come lui Centravanti di movimento, con il Real ha fatto la storia e vinto tutto Aveva straordinarie doti tecnico-atletiche: resta un fenomeno irripetibile Gigi Garanzini Prima o poi vedremo un altro Pelè. Un altro Maradona lo stiamo più o meno vedendo, e solo il tempo dirà se sul podio di sempre resterà Diego o se Leo sarà riuscito a scalzarlo. Ma un altro Di Stefano non lo vedremo più. Come non lo abbiamo visto negli ultimi cinquant’anni, da quella finale di Coppa persa a Vienna nel ‘64 contro l’Inter che rappresentò per il trentottenne don Alfredo il capolinea di una carriera assai più che leggendaria. In questo mezzo secolo soltanto un altro fuoriclasse ci è andato vicino, Johann Crujiff. Ma intanto per un periodo assai più breve, perché la carriera dell’olandese ai livelli più alti è durata meno di dieci anni e quella di Di Stefano esattamente il doppio. E poi perché se il raggio d’azione di Crujiff si sviluppava nell’intera metà campo offensiva, quello della Saeta Rubia si estendeva dalla sua area di rigore a quella altrui. Dove la sua strapotenza atletica gli garantiva ancora una freschezza che si traduceva in freddezza e quindi, grazie anche ad una tecnica sopraffina, in una quantità industriale di gol. «Per me – scrisse un giorno Enzo Bearzot – Maradona è stato il più grande negli ultimi 30 metri, Platini nei 40-50, Crujiff sui 60-70. Ma Di Stefano su tutti i 110». Un pezzo unico. Di cui è passabilmente documentata l’ultima parte di carriera, quella che lo consacrò stella assoluta del Real Madrid. Era la seconda metà degli Anni 50, la neonata Coppa dei Campioni stava prendendo piede e qualche partita in bianco e nero si cominciava finalmente a vedere. Rivisitate oggi in un grato e commosso sforzo di memoria, quelle immagini restituiscono le volate improvvise di Gento sulla sinistra, la facilità di battuta e il senso del gol di Puskas, che però il pallone lo aspettavano da fermi come nel calcio di oggi non sarebbe concepibile. A recapitarglielo a domicilio, a innescarli, a triangolare con loro partendo da lontano era sempre lui, Di Stefano, fresco reduce da una chiusura difensiva al fianco di Santamaria piuttosto che da quaranta metri di avanzata, sempre a testa alta e petto in fuori come solo i conducatores. Tutto il resto, gli anni della gioventù e della maturazione, lo possiamo soltanto immaginare. Partendo dalla certezza che già a 18 anni nel River Plate il centravanti di movimento Alfredo Di Stefano era un fenomeno in ascesa. Ma il suo talento faceva ombra al declinante Adolfo Pedernera, a un altro campione a nome Labruna, e non era tipo, don Alfredo, da vivere e giocare da sopportato. Se ne andò all’Huracan, tornò al River, emigrò in Colombia ai Millionarios dove cominciò a guadagnare quattrini a palate e a 28 anni, conteso da Barca e Real, scelse il Madrid di cui nel 2000 sarebbe divenuto presidente onorario. Vinse anche da allenatore, in Spagna e in Argentina, negli anni ’70 e ’80. Viveva nella zona del Bernabeu, dove non era difficile incrociarlo la sera nel ristorante che aveva comprato proprio di fronte alla stadio. Persona di enorme fascino e insieme di grande semplicità, la prima cosa che ti raccontava era la scultura che si era fatto costruire nel giardino della sua villa. Un basamento un po’ complicato, raccontava sogghignando, perché agli artisti la testa non gliela puoi cambiare. Ma poi, lì sopra, un semplice pallone di bronzo. E la scritta, «Gracias, Vieja». Grazie, vecchia palla, senza di te non sarei mai stato nessuno. Nella sua biografia, pubblicata subito a fine carriera per levarsi il pensiero, ha scritto: «Ho bevuto botti di vino e mangiato quintali di pesce fritto». Per poi aggiungere di non aver mai saltato un allenamento in vita sua, e di essersi sempre lamentato non quando erano troppo duri ma troppo blandi. Tra i grandi paradossi della storia del calcio, uno dei principali è che Di Stefano non ha mai giocato nemmeno un minuto ai Mondiali. Nel ’50 era in Colombia, federazione non riconosciuta dalla Fifa. Nel ’54 fallì la qualificazione l’Argentina, nel ’58 la stessa sorte toccò alla Spagna di cui aveva nel frattempo acquisito la cittadinanza, nel ’62 sempre con la Spagna si infortunò durante la preparazione. Ma è vero che il ct di quella Spagna era Helenio Herrera. Che avrebbe poi detto, a distanza di anni, «se Pelè era il primo violino dell’orchestra, Di Stefano era l’orchestra»: ma aveva ben presente, in un’orchestra, quanto debba pesare il rango del direttore. Peggio per la storia dei Mondiali. Non certo per quella di Di Stefano. Adiòs Alfredo. È stato emozionante conoscerti. Indimenticabile averti intravisto giocare.