Mario Baudino, La Stampa 8/7/2014, 8 luglio 2014
Il figlio folle, l’unico problema che Einstein non seppe risolvere. Un romanzo di Laurent Seksik ricostruisce il dramma di Eduard: una vita in clinica, abbandonato dal padre
Albert Einstein, oltre a essere il genio del Novecento, fu un uomo di grande coraggio, che riuscì a sfuggire alla Gestapo, a contribuire alla creazione di Israele, e a spingere Roosevelt al progetto per la bomba atomica cercando però di fermarlo quando si trattò di lanciarla sul Giappone. Una cosa sola non riuscì a fare: visitare il figlio chiuso in un ospedale psichiatrico. Era il suo limite, «ma solo l’Universo non ha limiti», scrive Laurent Seksik in Il caso Eduard Einstein, romanzo-biografia appena uscito per Frassinelli. In omaggio alla tradizione molto francese delle biografie che scavano nel sentimento, per concedersi solo in campo psichico la parte di invenzione romanzesca (basti pensare a quelle che André Maurois dedicò a un’infinità di personaggi, da Byron a Hugo, da George Sand a Balzac, o più di recente alla versione scabra e quasi reticente negli ultimi libri di Jean Echenoz), Seksik riporta così alla luce una scheggia di vita del grande scienziato ben nascosta nelle lettere o in pagine e note di altri lavori. La tragedia della sua vita: il figlio Eduard che a vent’anni fu rinchiuso nell’ospedale psichiatrico di Zurigo e di fatto lì abbandonato. Una tragedia dimenticata. Nato nel 1910, secondogenito del matrimonio tra il padre e la scienziata Mileva Maric, ragazzino sensibile e malaticcio, Eduard è considerato un talento nella musica e negli studi. Cresce a Zurigo con la madre e il fratello Hans Albert, e gli anni dell’adolescenza sono gli unici sereni: il padre che vive a Berlino arriva spesso in visita, il ragazzo è in apparenza sereno. Si affaccia all’università per studiare medicina. Vuole diventare psichiatra, si appassiona alle opere di Freud, ma il suo male è in agguato, e deflagra nel 1930, quando ha vent’anni, in forma gravissima. Durante una crisi, il giovane aggredisce la madre. Nel ’32 si rende necessario il ricovero al «Burghölzli», una clinica per malattie mentali di Zurigo, e da quel momento tutto cambia. Eduard ne sarebbe uscito qualche volta, ma lì era destinato a trascorrere gran parte della sua esistenza e a morire, nel 1965, dieci anni dopo la scomparsa del padre. In tutto questo periodo, in tutta questa vita, Albert e Eduard si incontrarono una sola volta, come documenta una fotografia. Fu nel ‘33, quando lo scienziato lasciò fortunosamente Berlino per riparare in America con la seconda moglie. Hitler era diventato cancelliere, e Albert Einstein fu il primo obiettivo dei nazisti. Riuscì a mettersi in salvo, e si precipitò a Zurigo per convincere il figlio a seguirlo. Senza riuscirci. Fu quello il loro ultimo incontro, al Burghölzli. Insieme suonarono il pianoforte; quanto al resto può solo essere immaginato. Seksik lo fa nella sua biografia-romanzo, dove Eduard dice al padre, con tono di sfida. «Venire con te? Meglio crepare». È del tutto verosimile, anche se non sapremo mai che cosa passò in quel momento tra i due. Il giovane restò affidato alla madre - e alle terribili cure di quegli anni, agli elettroshock, alla contenzione -, mentre per il grande scienziato cominciava una nuova vita. E tuttavia anche dopo la guerra - e la scomparsa di Mileva - l’uomo che più ha impresso la sua impronta sul secolo non se la sentì mai di guardare ancora una volta in viso la follia del figlio. Fu una sorta di terrore, che filtra qua e là nelle varie corrispondenze: «Mio figlio - scrisse - è l’unico problema che rimane senza soluzione». Un terrore in qualche modo ricambiato. Nel manicomio o nelle case di famiglia che di volta in volta lo ospitavano, Eduard studiava, scriveva (per esempio poesie) e non faceva mistero del suo essere come schiacciato da un padre insopportabilmente geniale e da un oscuro passato famigliare, che emerse a poco a poco. Scoprì per esempio dal fratello Hans Albert che prima di loro c’era stata una bambina, nata dall’unione dei genitori quando erano studenti, ancora troppo giovani e squattrinati, che la dettero a balia per perderla quasi subito. Si discute se sia stata successivamente adottata o sia morta di scarlattina - Seksik propende per la seconda ipotesi - ma la sostanza non cambia. Eduard non era forse l’unico «problema senza soluzione». In camera teneva un ritratto di Freud, forse un ambiguo simbolo paterno. Albert Einstein ebbe infatti col padre della psicanalisi un rapporto complicato. All’inizio respinse le sue teorie, tanto che nel 1928 si oppose - senza successo - alla decisione dell’Accademia di Stoccolma di assegnargli il Nobel per la medicina. In seguito fu però in corrispondenza con lui. E, insieme, i due scrissero per la Società delle Nazioni un libro di lettere in cui discutevano sul tema Perché la guerra. Non solo: da parte dello scienziato venne infine un riconoscimento esplicito che le teorie sull’inconscio erano forse accettabili. Senza mai menzionare con lui - altro mistero in questa zona buia della sua esistenza - la malattia del figlio.