Tonia Mastrobuoni, La Stampa 7/7/2014, 7 luglio 2014
QUANDO HITLER CERCAVA GLI AVI IN GRECIA
Oggi una trentina di casse con 8523 reperti archeologici trafugati dai nazisti torneranno al legittimo proprietario: la Grecia. Sarà il ministro della cultura Kostas Tasoulas ad accogliere 375 chili di statue, vasi, gioielli, armi e altri materiali risalenti a 7200 anni fa e provenienti dal museo di Unteruhldingen.
Nel 1941, nel folle intento di dimostrare che i greci discendessero dai germani, una spedizione di archeologi tedeschi guidata da Hans Reinerth scavò per sei massacranti giorni nelle colline attorno a Salonicco e portò i reperti di nascosto in Germania. A distanza di 73 anni si chiude un’odissea incredibile che si è trascinata con molte ombre anche durante la Germania repubblicana.
Chi ha letto Mein Kampf, il manifesto socialdarwinista di Hitler, sa che nell’aberrazione del concetto di «ariano», un termine sanscrito con cui i popoli indoeuropei si autodefinivano, i nordeuropei ne sarebbero i discendenti più puri e biologicamente superiori, una «razza padrona» che ha bisogno di «spazio vitale» per evolversi.
Scopo di molte missioni archeologiche delle camicie brune in Francia, Danimarca, Norvegia, Repubblica Ceca o nei Balcani fu quello di indagare le origini delle popolazioni indoeuropee, ma anche di dimostrare l’esistenza di una primordiale «Grande Germania». È noto anche che Heinrich Himmler avesse creato una «Ss-Ahnenerbe» («Ss-eredità-degli-antenati») spedendo ad esempio lo zoologo Ernst Schäfer fin nell’Himalaya per trovare tracce delle origini della presunta «razza ariana».
In questo delirio collettivo, Reinerth partì per la Grecia nel 1941 e riuscì a trovare migliaia di reperti archeologici nella regione di Salonicco e in particolare a Velestino, nessuno dei quali ovviamente utile a dimostrare la tesi della presenza dei germani in loco, nel cinquemila avanti Cristo. Ma in anni in cui non era ancora stato scoperto il metodo del carbonio per datare con affidabile precisione i ritrovamenti, Reinerth mise in moto la fantasia. Spostando qualche pietra di là e di qua, ricostruì il presunto basamento di una casa rettangolare, tipica delle popolazioni nordiche. E stilò rapporti entusiastici sulla sua trionfale scoperta. I materiali, scrisse, sono tracce di «edifici paleogreci, di fattura nordica».
Tornato in Germania con il suo tesoro, Reinerth andò incontro a una terribile delusione. Forse il Führer si aspettava che l’archeologo gli riportasse statue, colossi, un palazzo intero, insomma testimonianze inequivocabili della grandeur paleotedesca e non frammenti di vasi in terracotta. Non gli srotolò tappeti rossi. Lo ignorò, persino.
La guerra, intanto, infuriava e costrinse lo zelante archeologo a spedire i materiali a partire dal 1943 nelle città più disparate per proteggerlo dai bombardamenti. Quelli che tenne per sé li incartò con copie dell’organo nazista «Völkischer Beobachter» e li nascose in cinque grandi scatole di legno. Nel 1945 il partito nazista espulse Reinhert perché scoprì che aveva laureato ebrei sino al 1945. Dopo la guerra, l’archeologo fu comunque imprigionato dai francesi per tre anni e processato.
Successivamente, nel 1953, riconquistò la sua cattedra e più tardi diresse il museo di Unteruhldingen cui lasciò nel 1990 una parte dei reperti di Salonicco. Nei decenni fino alla sua morte aveva cercato ripetutamente di dimostrare la veridicità della sua tesi e di proteggere i materiali, ma era stato trattato da paria dalla comunità scientifica. Molti altri archeologi in prima fila dell’operazione «Ss-Ahnenerbe» furono invece totalmente riabilitati: Herbert Jahnkuhn insegnò a Gottinga e riprese addirittura scavi iniziati durante gli anni di Hitler come quelli dei villaggi dei vichinghi a Haithabu. Anche a un pezzo grosso delle Ss e comandante di lager Gustav Riek fu riassegnata una cattedra universitaria.
Tonia Mastrobuoni, La Stampa 7/7/2014