Maurizio Ricci, la Repubblica 7/7/2014, 7 luglio 2014
POZZI, MITRA E CONTRABBANDO ECCO IL PETROLIO DEI JIHADISTI PER FINANZIARE LA GUERRA
Già mezzo milione di dollari al giorno, destinati, probabilmente, a raddoppiare nel giro di qualche settimana. Linfa vitale per un esercito di jihadisti, impegnato a realizzare, sulla punta dei fucili, il califfato nel cuore del Medio Oriente. Abbastanza per fare del sogno dell’Isis (lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante) un petrocaliffato. Perché quei soldi vengono — come quasi sempre nel mondo arabo — dal petrolio: il greggio che i jihadisti pompano dai pozzi che hanno occupato, in Siria come in Iraq, nella loro guerra lampo e che, dall’inizio di luglio, hanno iniziato a vendere al di fuori dei mercati locali, a livello internazionale.
Il grosso, per ora, viene dal versante siriano. L’Isis controlla ormai l’intera provincia orientale di Deir al-Zour, un deserto che racchiude la quasi totalità delle — limitate — riserve petrolifere della Siria. Nelle mani dei jihadisti è finito il giacimento di Al Omar, il più importante del paese. Vale 30 mila barili al giorno, ma gli insorti non sembrano in grado di assicurare una produzione superiore a 10 mila barili. È, comunque, il primo mattone del petrocaliffato. Invendibili sul mercato legale, i 10 mila barili finiscono sul mercato nero dove spuntano un prezzo pari, mediamente, alla metà di quello ufficiale: 50 dollari a barile invece di 100. E’ il mezzo milione di dollari che già arriva, quotidianamente, nelle casse dell’Isis. Destinato ad aumentare, perché i jihadisti hanno assunto, in questi giorni, anche il controllo di Tanak e degli altri pozzi della regione. In teoria, l’area siriana di Deir al-Zour può produrre oltre 400 mila barili di greggio al giorno, ma l’Isis non sembra avere le risorse di tecnici e macchinari per reggere questi ritmi di produzione e, soprattutto, il mercato nero non è in grado di assorbire volumi così importanti di greggio. Anche se i jihadisti sunniti, a quanto sostengono i servizi segreti, in particolare francesi, un compratore solido, affidabile e affamato di petrolio lo hanno.
E’ più che uno dei tanti paradossi del Medio Oriente di oggi: è una vera e propria piroetta all’insegna di uno sfacciato cinismo. A comprare il greggio dei jihadisti sarebbe, infatti, proprio il nemico di Damasco, sostenuto dagli sciiti e contro il quale i sunniti come l’Isis hanno proclamato una sorta di guerra santa. Il petrolio, a quanto pare, non puzza e conviene a tutt’e due. Assad, rintanato nell’ovest — senza giacimenti — del paese, ne ha bisogno per riempire i serbatoi dei suoi carri armati e lanciarli contro i ribelli. I suoi nemici jihadisti ne hanno bisogno per finanziare la loro guerra in Iraq e il progetto del califfato. Sarebbero questi affari, dicono i critici siriani dell’Isis, a spiegare perché, finora, le truppe di Assad abbiano evitato di scontrarsi direttamente con i jihadisti del califfato e perché, a loro volta, l’Isis si tenga in larga misura lontano dalle operazioni contro Damasco.
I jihadisti, tuttavia, non guardano solo ad Assad. Da giovedì sera, non in Siria, ma in Iraq, nel giacimento di Ujil, non lontano da Kirkuk e dall’area governata dai curdi, hanno cominciato a riempire camion cisterna, da spedire verso il confine turco, dove li aspettano gli intermediari. Finora, l’Isis aveva tentato di vendere in Turchia benzina e gasolio già raffinata, ma la qualità era scadente e gli intermediari non avevano voluto saperne. Così i jihadisti hanno deciso di vendere direttamente il greggio, anche se il guadagno è minore. In teoria, Ujil è in grado di produrre 20 mila barili al giorno: sul mercato nero, potenzialmente, un altro milione di dollari di incasso quotidiano. Ma spostare questi volumi sui camion non è semplice e venderli clandestinamente — in assenza di un compratore come Assad — anche più complicato.
È il segno che il petrocaliffato rischia di essere un progetto di breve durata e poco più che un mezzo di finanziamento estemporaneo. Lo sfruttamento di un giacimento petrolifero è un’operazione tecnicamente e finanziariamente assai complessa. E, anche se riuscisse a procurarsi i tecnici adatti, l’Isis avrebbe, nel giro di qualche mese, bisogno di macchinari, per un verso, mercati, dall’altro che oggi appaiono difficili da ottenere. Soprattutto, avrebbe bisogno, come sanno le compagnie petrolifere, di un flusso continuo di investimenti per assicurare il fluire della produzione. E, qui, il problema non è solo del califfato. In un mondo tuttora assetato di petrolio, infatti, l’Iraq appariva, fino all’offensiva jihadista, la carta vincente per soddisfare la domanda globale. Nel suo ultimo rapporto, diffuso proprio nei giorni in cui l’Isis lanciava la sua offensiva irachena, la Iea (l’agenzia che, per conto dell’Ocse, l’organizzazione che raccoglie i paesi industrializzati, segue il mercato petrolifero) calcolava che il 60 per cento del petrolio in più, necessario, nei prossimi anni, per soddisfare la domanda globale, sarebbe arrivato dall’Iraq, tornato, finalmente, a produrre a pieno ritmo, versando sul mercato mondiale, non più tre milioni di barili al giorno, ma nove milioni di barili.
Oggi, è una previsione non più verosimile. I super-giacimenti iracheni e, probabilmente, anche le super-riserve del paese sono al sud, attorno a Bassora, lontano dalle aree controllate dall’Isis e da qualsiasi rivendicazione sunnita. Ma le compagnie petrolifere stanno scappando dall’Iraq. Nessuno, oggi, sembra disposto ad investire un dollaro in giacimenti che potrebbero cadere sotto il controllo dei jihadisti. La carta irachena della Iea è bruciata e il mondo è a caccia di sei milioni di barili che non sa dove trovare.
Maurizio Ricci, la Repubblica 7/7/2014