Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 6/7/2014, 6 luglio 2014
IL GIOCO DEL POTERE: A OGNUNO LA SUA FICTION E IL SUO REALITY
[Intervista a Roberto D’Agostino] –
Il posto fisso in banca: “Un colpo di culo che festeggiai comprando una 500, quando non hai una lira non ti metti a fare l’intellettualino”, la vita che diventa ricorrenza: “Siamo quasi al trentennale di Quelli della Notte, con Arbore orchestravamo i provini fermando a caso i passanti in Villa Borghese”, le stesse camicie a fiori con cui in epoca Beat attese Fernanda Pivano in un albergo romano: “Ero con Paolo Zaccagnini e mi aspettavo comparisse una papessa, una simil Patti Smith, una stracciarola, una zingara. Si fece invece avanti la donna che dava del tu a Hemingway e aveva scritto l’introduzione a Kerouac, una gentilissima signora bionda con il tailleur e il filo di perle. Mi insegnò che l’abito non fa il monaco. Lei non aveva necessità di mettersi gli zoccoli, esattamente come io in banca non indossavo la bandana”. Tra 24 ore Roberto D’Agostino festeggerà 66 anni e mentre il sole taglia la stanza, la tosse riempie le pause e lui dispensa mentine in forma anatomica: “Lo vuole un cazzetto?” dice di essere felice e di aver trovato un antidoto “ai metallari”. Quelli che telefonano: “conversazioni terribili”, urlano: “L’ultima, Bianca Berlinguer” e sublimano la rabbia con l’insulto: “Fassino non scherzava, ma il campione insuperabile della parolaccia a mezzo cornetta resta l’ex Dg Rai, Pier Luigi Celli”. Da un orecchio, D’Agostino non sente bene: “Sono proprio sordo”. Così se gli altri esagerano: “con l’espediente non mi sfondano”. Dopo quasi tre quinquenni di Dagospia, indefinite rimostranze e querele che raramente travalicano la soporosa liturgia della città in cui è nato: “Montezemolo mi ha accusato di diffamazione, sostiene che c’è una campagna a suoi danni, pretende 2 milioni di euro. Ma se lo incontro gli stringo la mano come mi è capitato l’altra sera con Azzurra Caltagirone. Su di lei e su Casini avevo scritto di tutto, messo in dubbio la durata del matrimonio, giocato sui pettegolezzi”.
Invece?
Eravamo al Maxxi. Baci e abbracci. Una giornalista del Messaggero, incredula, mi fa: “Non riuscirei mai a essere tanto naturale”. “È la forza di Roma” le ho risposto. “Alla fine gli attriti si risolvono. Ci si sbrana in Parlamento e poi ci si attovaglia al Bolognese”. È una filosofia criticabile, ma sento di poterla vivere senza doppiezze. Ho fatto tante cazzate e ho sbagliato spesso, ma non me la sono mai presa con qualcuno perché avevo un affare personale da risolvere. So devo trovare il coraggio di chiedere scusa so dove bussare. Quando mi dicono: “Ce l’hai con me” mi vien da ridere. Lavoro 12 ore al giorno. Il mio problema non sono ossessioni o cattiverie, ma il tempo che mi manca per ascoltare i miei dischi preferiti.
A chi gode dell’attenzione del suo sito la spiegazione non basta.
Ai tanti che si lagnano lo dico sempre: il sito si chiama Dagospia, non I Dieci Comandamenti. Non sono con lo scalpello in cima al monte a ffà Mosè.
Dagospia nacque da una crisi.
Avevo una rubrica su L’Espresso. Si chiamava Spia. Cinque pagine alla settimana di notizie, un mazzo mai visto. Scrissi che il marito di Miuccia Prada, Bertelli, aveva detto che l’avvocato Agnelli portava sfiga. Fine della rubrica. Barbara Palombelli mi consigliò di aprirmi un posto mio. Un’oasi in cui mettere i frammenti dannunziani che amavo e che sono il pane di Internet. Barbara la conoscevo dall’epoca in cui da segretaria di redazione dell’Europeo di Sechi, veniva a prendersi i miei articoli in banca. Le diedi retta e feci bene. Cambiare orizzonte aiuta. Quando si chiude una porta si spalanca sempre un portone. L’importante è avere lo spirito del tempo, inventarsi qualcosa, non lamentarsi mai.
Lei è nato a Roma, quartiere San Lorenzo.
All’epoca aveva una geografia rurale. Un borgo delimitato dalla ferrovia, dal cimitero e dalla ferita mai rimarginata del bombardamento del ’43. In Pizzeria si andava con i cibi propri. C’erano le bische, i ladruncoli, la vita semplice. Papà era impiegato alla Breda. Ci lasciò un polmone. Mamma lavorava con busti e reggiseni. Io balbettavo e portavo le lenti. Oggi sembra incredibile, ma a metà degli Anni 50 avere gli occhiali ti esponeva al linciaggio dei compagni: “Cecato”, “Quattrocchi”, mi gridavano di tutto. Durante l’interrogazione poi era l’inferno. Mi bloccavo su una sillaba, sudavo, e al culmine del calvario, mentre pronunciavo sillabe scomposte: “Mbb, mbb, mbb”, alle mie spalle sghignazzavano. Siccome il lato positvo del cancro esiste sempre e con me non voleva parlare nessuno, ne approfittai per leggere. Qualche Dostoevskij toccò anche a me. Poi mia madre mi mandò da un logopedista, imparai a respirare e anche se ancora adesso dico pissicologia, migliorai. Poi dio creò le classi miste e all’improvviso ci trovammo al bordello. Oltre il cancello della scuola c’era il Crazy Horse.
A casa non c’era una lira.
Ho lavorato in una fabbrica di legnami, come ragioniere alla Breda, poi, grazie a una raccomandazione, alla Cassa di Risparmio di Roma per 12 anni. La filiale era a Centocelle. La giornata tosta. Le file infinite. La banca mi ha insegnato a concentrarmi. Eri in prima linea. Se facevi un errore, pagavi di tasca tua. Mi capitò di confondere sterline inglesi e australiane, far felice un cliente nel cambio di valuta e rimetterci una fetta di stipendio. Capii cosa significasse attenzione. La sera, a turno finito, andavo in radio. La musica mi piaceva. 10 anni prima in Via Asiago, con Renato Zero, Loredana Bertè e le solite 100 persone che facevano la spola tra la chiesa laica di Renzo Arbore e il Piper, ero stato di casa. A metà dei 70, un decennio atroce, iniziai a collaborare con qualche rivista e mi proposero di fare il Dj. Per un paio di meravigliose stagioni misi dischi sul piatto e animai le serate del Titan. Provavamo a ballare con Bob Marley e i Rolling Stones al di là delle ideologie. Mi ricordo ancora lo slogan: It’s only Rock and roll. Erano anni in cui la disco music era considerata roba da fascisti, i compagni che volevano ballare rischiavano il pestaggio e in cui, in piena lotta armata, il riflusso aveva devastato in profondità l’equilibrio psichico di una generazione intera.
La politica era importante?
Prima della morte di Moro non c’era stato sabato senza corteo. Una volta, durante la visita del Segretario di Stato Americano Rogers a Roma, ce la vediamo brutta. La Polizia carica. Io, la mia prima moglie e un gruppo di manifestanti ci rifugiamo dentro l’Upim. I celerini presidiano le entrate. Lei è terrorizzata: “Se ti arrestano perdi il posto in banca”. Mi compro un completo grigio e usciamo nell’assoluta indifferenza della folla.
Dopo il 9 maggio 1978 cambiò tutto?
La violenza si fece insopportabile. Dopo l’esecuzione di Moro, movimenti e persone cercarono il loro posto sulla mappa. Qualcuno impugnò la P38, altri si chiusero in casa, altri ancora si persero per sempre dietro l’eroina. I pusher te la davano gratis, per fartela provare. Carlo Rivolta, la persona che con generosità mi spinse a L’Europeo, morì così. Sechi, faceva un giornale meraviglioso. Costosissimo e straordinario . Una sorta di New Yorker con la grafica di Milton Glaser e la redazione piena di teste: Dossena, Minetti, Mughini, Chessa. Lì avevo incontrato Federico Zeri.
Nel cui nome litigò con Sgarbi in una famosa puntata dell’Istruttoria di Ferrara.
Zeri era micidiale. Potevi essergli amico, ma se si sentiva tradito, prima ti estrometteva dalla cerchia e poi ti cancellava per sempre. Sgarbi, cresciuto alla formidabile palestra dialettica del Costanzo Show, di Zeri era stato adepto. Poi ci aveva litigato e da allora, eravamo amici anche noi, l’avevo perso di vista. Ferrara ci mise insieme perché sapeva che due galli in un pollaio avrebbero potuto dar spettacolo.
E così fu.
In studio, su un trespolo, oltre al semiologo Volli, c’era anche Corrado Guzzanti. Ma l’inquadratura era stretta su di noi e Sgarbi picchiava duro. Si dava un gran tono da professore, ma io sapevo che aveva affrontato 3 volte l’esame per ottenere la cattedra e che per 3 volte era stato respinto. Allora, ormai stretto all’angolo, mi giocai l’asso: “Professore di che?” dissi. Lui perse la testa, non capì più un cazzo e mi tirò dell’acqua. A quel punto dimenticai di essere in tv, ricordai di essere stato un ragazzo di strada e mi sfiorò la tentazione di rompergli la minerale sul capo. Grazie al cielo lui intercettò la bottiglia e io rapido, con la mano libera, gli diedi uno schiaffo. Il segno del disprezzo massimo. Sgarbi inveì e poi se la prese con Ferrara: “La devi tagliare” minacciava. La puntata era registrata.
E Ferrara?
“Col cazzo che la taglio” ripeteva. “È una chicca assoluta, la mando in onda”. Io approfitto del caos e scivolo fuori dallo studio per cercare un po’ di pace. Trovo Chiara Valentini, la mia fidanzata di allora che litiga a testa bassa con Lino Jannuzzi, storico compagno di merende di Giuliano. Ferrara fu grandioso. Mi è sempre piaciuto. Testa acuta e penna rapida. Uno dei pochissimi in grado di scrivere un articolo in tempo reale senza indulgere all’osservazione del proprio ombelico.
Lei in tv era già stato con Arbore.
La storia di Quelli della Notte, un programma da cui discendono tutti i Saturday Night live del nostro secolo, va raccontata bene. La trasmissione si sarebbe dovuta chiamare Musica e puttanate. Renzo non aveva le idee chiarissime. Ci incontrammo alla Casina Valadier. Gli proposi una look parade. Un racconto del mostruoso, bombastico cambiamento delle classi sociali degli Anni 80 attraverso l’abbigliamento .
Lei ne avevo scritto a lungo su “Moda” diretto da Vittorio Corona, il padre di Fabrizio.
“Quando esce dalla sua camera da letto” spiegai ad Arbore “la persona non è più quel che è, ma quel che vorrebbe essere agli occhi del mondo”. Rimase interdetto.
Non capì?
Oggi ognuno è la sua fiction e ambisce al suo reality, alla plastica rappresentazione di sé, al suo selfie. Nel 1985 non era facile intuirlo, ma a me pareva che lo choc culturale e liberatorio degli Anni 80, poi piegato nella valutazione a posteriori dalla condanna del craxismo, fosse epocale e meritasse un racconto a sé. Renzo, che è sempre stato pragmatico, volle la prova empirica. Mi fece fermare il primo essere umano che passava per la strada. L’esperimento gli piacque: “Ti mettiamo sotto l’ingresso, Roberto”. A quel punto mi posi lo scrupolo di non esagerare. Di vestirmi da clown. Di agghindarmi con il turbante per non dare alla gag il peso sinistro del giudizio morale. Chi ero per dare le pagelle? Bisognava alleggerire. Lo facemmo e ci divertimmo molto. Mi vestii anche da critico televisivo. Facendo leva sulla distinzione tra apocalittici e integrati delinata da Umberto Eco iniziai a dileggiare gli intellettuali che si confrontavano per la prima volta con fumetti e canzonette senza mai perdere il timbro altero da Gruppo 63 e il loro ridicolo tono di superiorità. Il corto circuito funzionò e dopo la prima settimana segnata dai pessimi ascolti, Quelli della notte prese il volo.
L’edonismo reaganiano. I tormentoni legati a Milan Kundera.
Renzo lo chiamava la Milan, forse perché Milan gli sembrava un nome femminile. La verità è che L’insostenibile leggerezza dell’essere non l’aveva letto nessuno. Non i dirigenti Rai, non Renzo e tantomeno io che mi ero fatto bastare la recensione di Severino Cesari su Il Manifesto. Gli rubavo le frasi e le rielaboravo a modo mio per ragionare sui Ricchi e Poveri o su Raffaella Carrà.
Poi come tutte le cose belle finì anche Quelli della notte.
Per rifare una cosa del genere ci vorrebbe un grande direttore d’orchestra come Renzo. Conosceva i trucchi del gusto nazionalpopolare. La tv è un mestiere difficile. Collettivo. Bisogna essere abili a definire ruoli e competenze. Ci colse anche un po’ di ubriacatura. Ci riconoscevano per strada, non essere turbati dalla popolarità è un esercizio complicato. Quando ci salutammo, scimmiottai il discorso sul cono d’ombra che Scalfari amava ripetere a chi si azzardava ad abbandonare il tempio di Repubblica: “Finirete tutti a leccarlo, il cono d’ombra”. Continuai con la tv, a Domenica In, poi girai il mio primo e unico film, Mutande pazze, una fenomenologia dell’arrivismo paratelevisivo baciata da una certa lungimiranza. Il titolo iniziale doveva essere Brividi di sesso e lividi di successo. Mutande pazze non lo voleva nessuno. “È pornografico”, giuravano. Fu Enrico Vanzina a convincere Cecchi Gori.
Sul suo assoluto cinismo si favoleggia.
Nei rapporti personali sono curioso. Né cinico né snob, anzi più compassionevole che cinico.
Però il cinismo politico è parte di me. È figlio dell’esperienza e della mia passione per la storia. Non ce l’ho con Renzi e da un certo punto di vista mi auguro che ce la faccia, ma di fronte a certi entusiasmi, alle slavine di bava e alle sinfonie in gloria del giovane Matteo, provo imbarazzo. Fare il contropelo al potere è un dovere giornalistico, non un hobby.
Come si finanzia Dagospia?
Con la pubblicità ed è per questo che è in crisi. Mettere contenuti a pagamento non funziona e senza pubblicità mancano gli introiti. Un tempo i giornali per gli editori erano una barriera. Una polizza Kasco senza la quale in tanti sarebbero finiti in galera. Una volta tramontati gli editori puri, la stampa italiana vive un tragico rito di passaggio, accende gli ultimi fuochi e osserva nello specchio una decadenza che è speculare a quella dell’economia. È finita, l’economia. Sono sparite le aziende, non c’è più nulla. Né idee né ideologie. Solo comitati d’affari. Piersilvio Berlusconi che regge il pitale a Renzi è emblematico. Quando l’impero rischia di dissolversi vengono giù anche le barricate. Il Paese tenta di salvarsi, ma è troppo gracile e temo non ce la farà.
Con Diego Della Valle, amico di Renzi, ha fatto pace?
Della Valle si inventò la campagna Dagostrunz. Per descrivermi come un rifiuto della società affittò carri di carnevale, impiantò un merchandising in tema, mandò il Kit di Dagostrunz con tazze, cappellini e magliette persino in Banca D’Italia. Quando vidi una mongolfiera sopra la mia casa di Sabaudia rimasi basito: “Ma perché butta tutti ‘sti soldi?” Quando il camioncino di Dagostrunz, immagino per puro caso, arrivò a un passo dalla scuola di mio figlio Rocco che aveva 14 anni, mia moglie Anna si incazzò non poco.
L’hanno criticata aspramente per i suoi rapporti con Bisignani.
Cercavo notizie da chi le notizie le aveva. Mi hanno messo sotto inchiesta per avergli offerto uno spaghetto, non perché tramassi operazioni finanziarie in Lussemburgo o in Svizzera. Chiamavo Bisignani per avere nuove su Berlusconi come chiamavo la buonanima di Rovati all’epoca di Prodi o Velardi, quando regnava D’Alema. La vicenda Woodcock mi fece male, mi spaventò, ebbi paura di essere arrestato e non capivo il perché. Non mi era mai successo nulla del genere.
Le guerre imbiancano e gli anni sono 66.
L’unica soluzione ai problemi dell’età è la filosofia Zen. Per vivere senza infelicità ho due precetti.
Ce li espone?
“Quando non c’è soluzione, non esiste il problema”. E poi il secondo: “Meglio una fine spaventosa che uno spavento senza fine”. Nella mia vita ho prolungato situazioni incresciose sbattendo la testa su amori impossibili. Ma non mi sono mai sentito né sono stato migliore di nessuno. Tra persone, la partita è sempre doppia. Si perde e si vince, ma lo si fa sempre in due. E dopo il buio, torna la luce. Abbiamo qualche strano meccanismo cerebrale e una fortuna grande. Ci piace ridere. La tragedia di oggi diventa la sempre farsa di domani.
Malcom Pagani