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 2014  luglio 06 Domenica calendario

“STATO E GIORNALI ALLA RIVOLUZIONE DI INTERNET”

[Intervista a John Micklethwait] –
John Micklethwait è il direttore dell’«Economist». La sede è un edificio moderno nel cuore di St. James. Gli uffici sono piccoli e semplici. Micklethwait beve acqua San Pellegrino ed è molto cordiale. Ha lavorato a «The Economist» per 25 anni prima di dirigerlo. Ha scritto diversi libri con il collega Adrian Wooldridge: recentemente hanno pubblicato «The Fourth Revolution: The Global Race to Reinvent the State» (La quarta rivoluzione: La corsa globale a reinventare lo Stato).
Nel suo libro lei dice che il concetto di Stato andrebbe cambiato: «sfrondare lo Stato e rivitalizzare la democrazia». È possibile?
«Sì, per via di due fattori: la storia e la tecnologia. Sotto il profilo storico lo Stato occidentale è passato attraverso tre grandi rivoluzioni e mezza. La prima nel XVII secolo, quando i principi europei costruirono Stati centralizzati. La seconda alla fine del XVIII e nel XIX secolo. È cominciata con la rivoluzione americana e a francese per diffondersi in tutta Europa con le riforme liberali. La terza grande rivoluzione è stata l’invenzione del moderno Stato assistenziale».
E per quanto riguarda la tecnologia?
«Internet ha rivoluzionato tutto quello che ha toccato, dal mercato editoriale alla vendita al dettaglio. Sarebbe strano se non rivoluzionasse anche lo Stato. La rivoluzione internettiana sta sottraendo allo Stato una delle sue grandi fonti di potere - il possesso di un numero di informazioni superiore a chiunque altro. Le cose devono cambiare per garantire ai poveri migliore istruzione, assistenza sanitaria, servizi pubblici. A Singapore l’assistenza pubblica ha qualità più alta a un decimo del costo. L’America ha un sistema scolastico di gran lunga peggiore rispetto a Svezia, Polonia o Singapore».
Il premier italiano Renzi può portare un nuovo modello di governo?
«Parla con forza e in modo assertivo. Ha detto che vuole che le cose cambino. In Francia, Hollande ha detto la stessa cosa, ma non ci ha nemmeno provato. Renzi potrebbe riuscire, ha maggior sottigliezza rispetto ad altri; le leggi sul lavoro non sono ancora cambiate, però può accadere».
Chi sta cambiando?
«La Svezia, Singapore, il Quebec, la Gran Bretagna. In Gran Bretagna si è ridotto il peso dello Stato senza tagli evidenti. Le città sono più facili da cambiare. Un esempio è il crimine. I dati dimostrano che i reati sono enormemente diminuiti».
Che tipo di Stato vorrebbe?
«Voglio uno Stato liberale. Uno stato pragmaticamente piccolo che mantenga la supremazia dell’individuo, ma liberale, non libertario: sono felice che ci sia un Servizio sanitario nazionale».
Cosa vuol dire essere direttore dell’«Economist»?
«Qui ci si sporca le mani. Non abbiamo collaboratori esterni e non firmiamo individualmente gli articoli. La maggior parte delle buone idee viene dal basso. Per un settimanale è importante offrire un prodotto molto curato, che dia un’idea di tutto ciò che accade nel mondo. Noi continuiamo a pensare che il gruppo sia un valore aggiunto».
Chi sono i vostri lettori?
«Le persone interessate alle idee. Ma gli stessi lettori possono acquistare “The Economist” e “People”. Vogliono mescolare i generi. Oggi il livello superiore è in crescita, sempre più persone viaggiano, vanno all’università».
Il giornale va bene?
«Facciamo 60 milioni di sterline l’anno perché vendiamo bene. Quando sono diventato direttore ero convinto che Internet fosse come un uragano e che avrebbe spazzato via le riviste. Mi sbagliavo. La gente voleva un filtro, le vendite dell’edizione cartacea sono aumentate. In America oggi i lettori su iPad e Kindle sono più o meno tanti quanti quelli che preferiscono la carta. I giovani, gli studenti, preferiscono la carta stampata».
Avete fatto campagna contro Berlusconi quando era al potere?
«Abbiamo detto che era inadatto a governare l’Italia. Alcuni italiani vennero a dirci che avrebbe cambiato l’Italia. Abbiamo accettato il concetto, ma abbiamo detto che era interessato solo a tutelare i propri interessi. È stato inutile per l’Italia, alla fine, e ora nessuno parla in sua difesa».
E Putin?
«Non ci piace. Ha lasciato che i suoi amici rubassero troppo e, gas a parte, l’industria russa è allo sfascio».
La Cina?
«Sono impressionato da quel che hanno fatto, la Cina è di nuovo competitiva e sta seguendo le orme di Singapore».
E l’America?
«Obama non è un disastro, ma è un’enorme delusione. Si pentirà di aver respinto la soluzione di riforma del diritto fiscale proposta dalla commissione Simpson-Bowles. Rimpiangerà anche di non essere intervenuto in Siria. Ha fatto un errore. Se sei una superpotenza non ti puoi fermare. Bush ha fatto troppo, Obama troppo poco. Anche per l’assistenza sanitaria».
Sarà Hillary il prossimo presidente?
«Sì, può farcela. Ha un 80% di possibilità di essere il candidato democratico, il 70% di vincere le elezioni. Probabilmente sarebbe la cosa migliore».