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 2014  luglio 06 Domenica calendario

IL DRAMMA DELLE SPOSE BAMBINE


Il giorno delle nozze Aisha era stordita. Tutto girava intorno a lei come fosse una giostra; quelle donne del villaggio vicino, accorse per festeggiarla, le voci che si mescolavano, le vivande, le congratulazioni che non riusciva a comprendere. Sembrava un brutto sogno da cui non ci si riesce a svegliare. Non poteva certo immaginare di essere data in sposa a 10 anni. Frequentava ancora le scuole elementari. Sposa a un uomo di 40 anni.
Aisha ricorda commossa il giorno che segnò la sua vita. «Come altre bambine desideravo un giorno avere una famiglia. Ma non capivo realmente cosa fosse il matrimonio. Il mio sogno era portare avanti gli studi». Il matrimonio le fu annunciato dal fratello maggiore. Il futuro marito era un creditore a cui doveva 700 dollari. «Mi sono opposta, ho pianto. Mio padre era vecchio. Erano i miei fratelli a comandare», spiega Aisha dalla stanza offertale dall’Unione delle donne yemenite. Seguirono percosse, insulti, una vita di privazioni. Aisha comprese che doveva cercare di adattarsi. Abituarsi a non sentire. Spegnere le speranze.
I matrimoni precoci sono un fenomeno molto diffuso in Yemen. Nel Paese più povero e conservatore del mondo arabo, scegliere il proprio sposo è un privilegio riservato a pochissime donne. Secondo uno studio della Commissione europea oltre il 15% dei matrimoni sono celebrati con fanciulle sotto i 15 anni. Ma nelle regioni più povere, come Houdeida, si arriva al 47 per cento. Sono fanciulle di 14, 12, 10 anni. Nei casi più estremi di otto. Molte di loro si rassegnano a una vita di privazioni e violenze. Alcune, disperate, si tolgono la vita. In poche riescono a ribellarsi, a fuggire, lontano dal villaggio, e nei casi più fortunati, a ottenere il divorzio.
Nei villaggi di pietra abbarbicati sulle montagne non è infrequente avere 20 anni con già cinque figli da allevare. Ma accade anche nelle città. La famiglia di Sadaa e Jamila vive in un quartiere periferico della capitale Sana’a. La casa in cui sono tornate a vivere con i genitori è un tugurio umido e buio. Jamila ha oggi 15 anni. È timida. Imprigionato nel niqab, il corpo ha imparato a comunicare col mondo attraverso gli occhi. La sua voce sono gli occhi. Lo sono la paura, i sorrisi, la rabbia e la delusione. Lo Yemen è un Paese distante. La sentenza della Corte europea dei diritti umani, che ha ritenuto legittima la decisione francese di vietare il velo integrale, qui non è nemmeno una lontana eco. «Mio padre – racconta – prese in prestito 100 dollari da un uomo, con cui poi ebbe dei problemi. Arrivò un signore, si chiamava Ibrahim. Offrì di pagare il debito come prezzo del matrimonio. Mi sono rifiutata. Ma mio padre, essendo malato, accettò». Il padre non sembra domandarsi se sia giusto o no aver dato in sposa una bambina di 12 anni, come la sua Jamila: «È il destino – esclama –. La gente sposa fanciulle come loro, nessuno si lamenta, e loro vivono una vita felice». Ma, al pari della sorella Sadaa, la breve vita coniugale di Jamila è stata un incubo. «L’uomo mi picchiava, mi insultava, mi minacciava con un coltello. Sono scappata dai vicini. Poi sono andata in tribunale e ho ottenuto il divorzio».
Qualcosa di incoraggiante, tuttavia, sta accadendo. Nella società yemenita sta facendo sentire la sua voce una fetta della popolazione contraria a questa pratica. Hooria Mashhour è il ministro dei Diritti umani, da anni si batte per far approvare una legge che fissi un’età minima per il matrimonio: «Abbiamo proposto di fissare l’età minima a 18 anni – precisa –. Ma c’è stato un confronto in aula e hanno chiesto di abbassarla a 17. Nessun problema, se vogliono possono portarla anche a 16 anni». Eppure ancora molti yemeniti, tra cui numerose donne, sono contrari. È una legge anti-islamica, protestano, appellandosi a imam che predicano una rigida versione del Corano. Come Abdelmalik al-Taji, professore di Giurisprudenza islamica all’Università al-Eman di Sana’a. Affabile, ma tagliente, al-Taji precisa: «Dire che la gente in Yemen sacrifica le proprie figlie per denaro è falso. Perché siamo in una società musulmana e il padre ha molta cura delle proprie figlie. Per questo l’Islam ha previsto un tutore. Per evitarle ogni danno, sia prima sia dopo il matrimonio». Al-Taj risponde anche alla domanda più scomoda: «Se una fanciulla ha 12, 11, 10 anni e il suo corpo è giunto a maturazione ed è pronto per il matrimonio, allora la Sharia non ha nulla in contrario».
Addossare la responsabilità solo alla religione è però fuorviante. «La causa principale dei matrimoni con i bambini – precisa Hooria – è la povertà». Per Ahmed al-Qurashi, direttore di Seyaj, Ong a protezione dell’infanzia, c’è di più: «Il turismo sessuale dai Paesi del Golfo è innegabile. Ma anche la società yemenita contribuisce al problema perché ritiene vergognoso violare le tradizioni. È considerato uno scandalo per la famiglia. Si preferisce mantenere il silenzio». Diversi decessi sono così tenuti nascosti, classificati come emorragie o problemi legati al parto. Jamala lo sa bene. L’Ong di cui è direttrice offre tutela legale alle spose bambine. «Da 3-4 anni si è iniziato a denunciare i decessi – spiega –. Nel 2013 sono stati denunciati 5 casi di morte». Indagare è difficile, la società è una cortina impenetrabile. Anche negli ospedali di Sanaa sono frequenti i casi di spose bambine traumatizzate. Salwa Al-Ghomairi, ginecologa all’al-Sabeen, racconta di una fanciulla di 14 anni portata dopo la prima notte di nozze. «Aveva una grave emorragia, era scioccata. Morì». Salwa non vuole sentire ragioni: «Si parla di rapporto sessuale precoce se la donna è d’accordo. Se è consapevole, se si prepara all’atto. Ciò che accade durante i matrimoni in Yemen è diverso. Non si chiama sesso, si chiama stupro!».
La prima notte di nozze Aisha comprese che la sua infanzia si era spezzata. Il marito non venne sfiorato dal dubbio che penetrare un corpo acerbo e minuto significava infliggere una ferita insanabile. Non solo psicologica, ma anche fisica. «È stato uno shock – ripete Aisha – Lui ha usato una violenza inimmaginabile. Poche ore dopo sono stata portata in ospedale. Sanguinavo». Prima di dimetterla, i medici consegnarono una lettera ai familiari. «Non riportatela dal marito, la bimba può rischiare un’emorragia fatale». I fratelli la riconsegnarono allo sposo. Aisha non riusciva a capacitarsi. Questa volta non si trattava più di una giostra che le girava intorno senza capire cosa accadesse. Sapeva a cosa andava incontro. Il dolore di quella notte era ancora vivo nella sua carne. Il marito continuò a prenderla con forza, giorno dopo giorno. La picchiava, la minacciava. Basta, era troppo. Approfittando di un momento di libertà, sgattaiolò fuori di casa, andò nel villaggio vicino ed entrò nel negozio più fornito. «Chiesi il veleno più forte, spiegando che volevo sbarazzarmi degli insetti in casa. E l’ho bevuto. Volevo liberarmi di me stessa, perché non sapevo quale fosse la mia colpa». La salvarono in ospedale. I medici minacciarono di comunicare tutto alla polizia. «I miei fratelli mi accusarono di esser andata volontariamente da lui. Gli credettero». Aisha fuggì, questa volta riuscì a ottenere il divorzio. Pensava fosse ancora possibile studiare. Ma a 16 anni il fratello le scelse un altro marito per liberarsi da un nuovo debito.
Oggi, tuttavia, sempre più genitori preferiscono che le figlie finiscano gli studi. È un segnale di speranza; che siano meno frequenti storie come quella di Jamila, Saada e Aisha. Le tre ex spose bambine rifiutano anche solo l’idea di poter incontrare un uomo che possa renderle felici. «Non mi voglio sposare, voglio diventare un insegnante», spiega Jamila. «Il matrimonio è solo umiliazione, botte, bambini e stanchezza», protesta Saada. Gli occhi velati di lacrime, Aisha è rassegnata: «Non credo che ci sia un uomo buono su questa terra».

Roberto Bongiorni, Domenica – Il Sole 24 Ore 6/7/2014