Antonio Gnoli, la Repubblica 6/7/2014, 6 luglio 2014
MORANDO MORANDINI
[Intervista] –
Ora che sembra quasi tutto pronto, con le celebrazioni in corso e quelle imminenti (Milano gli consegnerà alla fine dell’estate l’Ambrogino d’oro), Morando Morandini si lascia andare a un piccolo sfogo: «L’arrivo dei novant’anni mi pareva un traguardo autorevole. Ora non me ne frega più di tanto. Se penso a cosa è stata la mia vita, vedo due o tre cose fondamentali: il cinema, la moglie, le figlie. E allora mi chiedo: chi sei Morando, chi sei veramente? Prima facevo fatica a trovare una risposta, ora mi sembra di avercela stampata in fronte».
E qual è?
«Sono un vecchio egoista che si sorprende nel vedere che la gente gli vuole bene. Pochi giorni fa c’è stata una serata che mi è stata dedicata al cinema Anteo. E io pensavo: chi sono per essermela meritata? Poi quando sono entrato ed è stato annunciato il mio nome è esploso un applauso di un minuto. Lei non sa quanto può essere lungo un minuto. Sembrava non finisse mai. L’emozione era fortissima. Non sapevo, in quel momento, se essere contento o vergognarmi».
Vergognarsi di cosa?
«Non lo so. È una specie di tardiva insoddisfazione. Sto leggendo un libro sulla schizofrenia».
Teme di essere schizofrenico?
«No, no. Anzi, della patologia mi affascina la micidiale separazione della personalità. Per cui una parte non sa cosa fa l’altra. In un certo senso, io che sono stato solo che un critico, per parafrasare un mio libretto di qualche importanza, non ho mai saputo veramente cosa accadesse al di là delle Colonne d’Ercole della critica. Non ho mai saputo chi fossi veramente».
Ma questo succede un po’ a tutti. Abbiamo perso in introspezione.
«E di chi è la colpa? Sarà che sono invecchiato di botto, ma stento a riconoscermi. Mi viene in mente Baudelaire, quando ormai trafitto dal rincoglionimento, passando davanti a uno specchio si toglieva il cappello e salutava la sua immagine senza riconoscerla».
Cosa la tormenta?
«Se lo sapessi! Non vorrei però finire in un posto come Cesano Boscone, se non altro perché c’è sempre il rischio di trovarci uno che scontandovi una condanna magari mi parlerebbe delle sue numerose conquiste femminili e di quanto era bella la televisione che faceva lui».
Lei tra critico cinematografico e televisivo non ha dubbi dove stare?
«E me lo chiede? Il cinema tutta la vita. Naturalmente semplifico. È un vizio che mi porto appresso».
E come critico cinematografico dove ha lavorato?
«Sono passato dalla Notte al Giorno. In mezzo ci fu un’esperienza che durò meno di un anno con il quotidiano Stasera».
La Notte era un giornale di destra, come fu lavorarci?
«Meno complicato di ciò che poteva sembrare. Lo dirigeva Nino Nutrizio, il quale non fece mai osservazioni sulle mie idee. Aveva capito che ero tra gli artefici del suo successo. E questo gli bastava».
E a lei bastava?
«Evidentemente no. Anche se, ripeto, fu una grande palestra. Fui il primo a inventare nelle critiche cinematografiche le stellette del critico e i pallini per il gradimento del pubblico».
Come le è nata la passione per il cinema?
«Da piccolo tendevo a identificarmi con Jean Gabin e Gary Cooper. Passai la mia infanzia in un cinemino parrocchiale non lontano da Chiasso. Poi continuai ad andarci nel periodo in cui ho vissuto a Como. Compresi che il cinema è una grande macchina del desiderio. In fondo è questo che mi ha spinto a occuparmene».
E ha scelto di farlo da un’entrata di servizio.
«Mica tutti nascono Kubrick o Fellini. Mi piaceva leggere romanzi, scrivere e andare al cinema. Sommando queste tre cose è venuto fuori Morando Morandini. Però capisco che la domanda presenta un risvolto».
Quale?
«In fondo noi critici cinematografici siamo come degli eunuchi, piazzati a guardia di harem ma incapaci di godere realmente delle bellezze che vi sono contenute».
Fare cinema e parlarne sono due cose diverse.
«Sì, poi magari arriva uno come Truffaut che eccelleva in entrambe le cose. Ad ogni modo, mi è anche capitato di fare l’attore».
Lo dice come fosse un peccato.
«In un certo senso è così. Anche perché non credo di sapere recitare. Al più potrei rifare me stesso. Ma anche lì avrei dei dubbi. Detto ciò, Bertolucci mi propose una parte nel film Prima della rivoluzione. Accettai. E devo dire senza pentirmene. Ho imparato alcune cose. Perfino l’umiliazione di sentirsi trasformati in un oggetto».
Chi sono i suoi registi preferiti?
«Che domanda? È come chiedere a un drogato con che cosa si fa. Ma poi alla fine un elenco di nomi rischia di fornire una caricatura. Ho passato tutta la vita a cercare di non farmi influenzare dalle mie idee e dai miei giudizi. Bastava quel rompicoglioni di mio padre».
Cosa faceva?
«Ma sa che non lo so. O forse l’ho rimosso. Ho l’impressione che si occupasse di turismo».
E in che senso rompeva?
«Era un entusiasta militarista. Entrò nella milizia fascista. Ci perseguitava con le sue frasi, i suoi atteggiamenti viriloidi. Ho dovuto sopportarlo per anni. In compenso ho adorato mia madre. Morì nel 1942 e per me si aprì un periodo complicato».
Quanto complicato?
«Abbastanza da mettermi di malumore. Si accentuò un difetto che mi portavo da bambino: la balbuzie. Ancora oggi, sente, come a volte mi impunto su delle parole».
E come l’ha vissuta all’inizio?
«Mi pareva un limite, come avere una gamba più corta. Però poi mi sono accorto che quel “limite” andava abbastanza d’accordo con il mio carattere, che tendeva a farmi stare sempre un po’ in disparte. Diventai così una specie di balbuziente felice e solitario».
Si è mai chiesto da dove nascesse quel difetto?
«Emotività, vergogna, paura, rabbia. Chi lo sa? Per risolverlo ho provato a imparare a respirare. Ma come vede ancora balbetto. Penso sia un modo per farsi rubare le parole».
Chi le ruba?
«Ogni tanto penso a un piccolo demone malignetto. Un guastatore della lingua che piccona le sillabe, prosciuga le vocali, svolazza sulle piccole frasi creando scompiglio».
«I demoni possono diventare la nostra ossessione».
«L’ho letto. Mirabile. Profondo. Ma di una profondità irraggiungibile. Quasi paralizzante».
In che senso?
«Non è una novità dire che Dostoevskij aveva guardato nel baratro del suo mondo. Cogliendone tutto l’orrore, l’assurdità, il pericolo. Io, giovane lettore, cosa avrei dovuto fare a quel punto? Alla fine provavo ammirazione per la sua lucidità ma nessuna empatia. Nessuna condivisione. Se si afferma che Dio è morto e che qualunque cosa è ammessa, il mio primo pensiero non va al nichilismo feroce, ma allo sdoganamento del consumismo che in questi anni, non ora che stringiamo la cinghia, ci ha afflitti e ridotti a espressioni dell’onirico».
Però il “nichilismo feroce” lo abbiamo vissuto sulle nostre spalle. Per lungo tempo è cresciuto come un demone esigente che ha divorato storie ed uomini.
«Sapevo che saremmo finiti lì. Su quel lembo di vita tragica che ha coinvolto mio figlio».
Lo sapevamo entrambi. Ma non volevo chiederglielo in maniera scorretta o brutale.
«Chieda, mi pare giusto risponderle».
Suo figlio, Paolo Morandini, con un commando di una sedicente “Brigata XVIII marzo”, partecipò all’agguato mortale di Walter Tobagi. Di quella vicenda accaduta nel 1980 si è scritto molto e molto è stato chiarito sulle responsabilità individuali e collettive. Non vorrei riaprire una ferita, che immagino comunque dolorosa, ma le chiedo cosa sono diventati i rapporti con suo figlio dopo quella vicenda.
«Prima di risponderle. Vorrei precisarle che ho avuto tre figli: due femmine e un maschio. La primogenita è Lia, poi è arrivata Luisa e infine Paolo. Ricordo ancora con un certo rincrescimento le dichiarazioni di congratulazioni da parte degli amici: finalmente un figlio maschio. A me, devo essere sincero, non mi fregava niente di avere avuto un maschio».
Forse è una reazione a posteriori.
«Forse. Come pure, può sembrare facile, dire a cose fatte, che avrei preferito non avere un figlio così. Ma è la verità».
Si sente in qualche modo responsabile?
«Ma la situazione era di una tale enormità, di una tale sproporzione che più che alla responsabilità pensavo al disorientamento. Cosa avevo fatto per meritarmi un figlio così? Ho sofferto tantissimo».
Ha mai sentito il bisogno di perdonarlo?
«È stato un bisogno che mi ha messo molto a disagio. E poi ho l’impressione che la nozione di perdono non faccia parte della mia visione del mondo».
In che senso non le appartiene?
«Ha troppe implicazioni cristiane e religiose».
Diffida dei precetti religiosi?
«Penso che non si dà quasi mai una vera espiazione. E se c’è, è qualcosa che riguarda l’individuo, non l’istituzione».
Che fine ha fatto Paolo?
«Vive a Cuba, ogni tanto ci sentiamo».
Cosa prova per lui?
«Ho sentito fastidio e perfino rabbia nei suoi riguardi. Da qualche tempo sto pensando di essere stato poco generoso nei riguardi di una persona che è comunque mio figlio».
Poco generoso?
«Capisco che può sembrare inopportuno. Ma ho come avuto la sensazione di aver davanti un uomo profondamente infelice. E mi viene il dubbio di non averne tenuto conto a sufficienza».
Lei sa che le infelicità sono di molti tipi. A quale si riferisce?
«Prima che accadesse quello che è accaduto, Paolo era divorato da un’ossessione di purezza. Voleva nella sua faziosità redimere il mondo. Si può essere più infelici, intendo mentalmente? E poi, quando il mondo è esploso nella sua tragedia, l’infelicità era nel rendersi conto del male fatto, ma non riuscire a tirarlo fuori. A dargli una forma comunicabile. Dai molti scontri che abbiamo avuto credo di non avere mai captato questo suo malessere di fondo».
Ne ha parlato con lui?
«No, ed è una cosa che mi addolora e considero questo silenzio un mio torto. La realtà delle persone che conosciamo è quasi sempre più complessa di quello che pensiamo. Anche il legame più compromesso chiede a volte di essere compreso. Non è al perdono che penso ma a una forma di compassione. È qualcosa che mi ha fatto capire mia figlia Lia. E in fondo era il rimprovero di mia moglie quando era in vita».
Di cosa l’accusava?
«Non erano accuse. È che l’affetto materno è profondamente diverso dal modo di ragionare di un padre».
Le capita di pensare alle vittime del terrorismo?
«Certo, per lungo tempo non ho dormito la notte. E provavo sconforto e desolazione per quello che era accaduto».
Ha parlato dell’infelicità di un figlio. E quella del padre?
«Non sono felice. Perché dovrei esserlo? Non ne ho motivo. C’è anche chi dice: ti è andata bene. Hai fatto quello che hai voluto. È vero, sono stato anche un uomo fortunato. Ma adesso che la maratona si sta per concludere sento di arrivare stremato al traguardo. Sono un uomo ricco di contraddizioni, come vede».
Come vive questi novant’anni così vicini?
«Male, nonostante feste e celebrazioni».
Perché?
«In questi ultimi anni c’è stato il crollo fisiologico».
Si sente prigioniero della vecchiaia?
«Non è un carcere piacevole. Ho peggiorato la salute, la memoria. Fatico a muovermi e la vita è sempre più piena di ombre».
Teme la morte?
«Al contrario. Le dirò una cosa che la sconcerterà. Spero di morire entro la fine di quest’anno. Me ne voglio andare. Non è un proclama. Le dico solo la verità. Solo quello che sento».
E se ciò come mi auguro non accadesse?
«Spero di morire ma non ho preso la decisione di farlo. Non farei nulla per accelerarne il corso. Mia figlia Lia mi dice: papà, molla tutto, vieni a vivere a Roma. Anche qui hai tanti amici, tanti ricordi. E io le dico: è troppo tardi. E penso davvero che sia cominciato il conto alla rovescia».
Antonio Gnoli, la Repubblica 6/7/2014