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 2014  luglio 06 Domenica calendario

CESARE COLOMBO

[Intervista] –

MILANO
«Sono sicuro di aver visto giusto? E soprattutto: che cosa ho visto?». Un “libretto rosso” non dovrebbe concludersi così, con un dubbio esistenziale. Ma Cesare Colombo è stato, per oltre mezzo secolo di cultura visuale italiana, un rivoluzionario senza dogmi e senza diktat, e non si pentirà adesso, a un anno dagli ottanta tondi.
Almeno alla seconda domanda, comunque, è facile rispondere per lui: ha visto tutto quel che c’era da vedere attorno a lui, e non ha soltanto visto, ha fatto, e ha fatto vedere. Fotografo, grafico, critico, storico, giornalista, editor, docente, archivista, curatore: il secolo dell’immagine lo ha attraversato come un prisma, lo ha scomposto in tutti i suoi mestieri. Chiunque si è occupato di fotografia, negli ultimi decenni, ha incrociato le molte strade di Cesare Colombo, pivot schivo, non esibizionista, di una generazione di “vedenti”.
Il riassunto di tutto sta adesso in un libro dalla copertina rossa, La camera del tempo , edito da Contrasto e scritto assieme a Simona Guerra, qualcosa tra un’autobiografia intellettuale, un album, un’antologia. Ma prima ancora sta sugli scaffali di questo studiolo bianco soppalcato, in moderato produttivo disordine, che dà su un cortile “di ringhiera”, che dà su una sponda del Naviglio Grande, un distillato di Milano, la città delle immagini, «la città che butta via le immagini... Guardi cos’hanno fatto di questo tratto di Naviglio...». Zatteroni da cocktail con erba finta, megaschermi per i Mondiali, lame di pubblicità che squartano la prospettiva più pittoresca della città. «È la logica conclusione di un percorso... Un paese che non crede nel vedere».
Immagine, nel Novecento, è stata un sinonimo di fotografia, la mamma di tutte le immagini meccaniche. Figlio e nipote di artisti, svezzato fin da piccolo ai traumi dell’arte per via di quelle modelle nude nello studio di papà, in posa «vicino alla stufetta elettrica, mi immunizzarono da turbamenti psicologici vari». Usava la fotocamera di papà, la sua camera oscura, approdò al curioso turbolento mondo dei «sacri weekend estetici», l’accanito clan dei fotoamatori delle gite domenicali e dei concorsi con le medaglie di vermeil, che a Milano aveva, ed ha ancora, una casa nobile, il Circolo Fotografico Milanese, dove Cesare ragazzino assisteva agli epici scontri fra il formalismo crociano di Giuseppe Cavalli e l’umanesimo impegnato di Pietro Donzelli, battaglia fra titani che non lasciava scampo, o di qua o di là, e Cesare andò di là, con gli impegnati, e con la penna in mano, sempre stato bravino a scrivere, incrociò le spade con gli “esteti”, ma adesso un po’ è pentito: «Vedendo come è andata poi la vicenda fotografica italiana, be’, in fondo loro, con tutte le loro geometrie levigate e sfumate, rivendicavano quella dignità e autonomia al linguaggio della fotografia, che la cultura di questo paese non ha mai riconosciute».
Assunto per qualche anno all’Agfa, la sfidante tedesca dell’industria fotografica italiana, ma sospetto di intelligenza col nemico (scriveva anche per la rivista della concorrente Ferrania, bibbia mensile del fotoamatorismo anni Cinquanta), poi grafico pubblicitario in proprio, specialità fotografia industriale, oggi diremmo immagine corporate. E intanto però fotografo “sociale”, di strada, engagé, nella Milano della Vita Agra, dove incrociava i Mulas, i Dondero, i De Biasi, i Nicolini, i Lucas. «Ho vissuto senza troppi problemi una doppia esistenza, durante la settimana costruttore d’immagine dell’impresa, nel tempo libero contestatore visuale col movimento studentesco...». Lo dice con un’ombra di ironia. «Vedo le cose in prospettiva. Avevamo molta fiducia in lei, ma la fotografia è un medium gracile. Riesce splendidamente a creare relazioni di senso nello spazio, ma non sa andare oltre la cornice. Guardi: una celebre foto di calcio, una magnifica rovesciata. Ma poi, avrà fatto gol? Vedo la tensione dei muscoli, l’espressione del viso, nessuno saprebbe descriverli in parole. Ma non so com’è andata a finire. La fotografia ha bisogno delle parole».
Quando arrivò il ‘68, sembrava facile. «C’era un corteo ogni giorno, o quasi. Le immagini andavano sui giornali, quelli della sinistra soprattutto. Ma ci siamo chiesti se era proprio quella, la fotografia impegnata. Capimmo abbastanza presto che una foto di lotta non era buona solo perché era giusto lo slogan dello striscione che avevi inquadrato. Che bisognava risalire la corrente, andare alle radici dei conflitti, magari avvistare quelli nuovi». In una sua foto del ‘69, la parete trasparente del grattacielo Galfa, presa di sera, col buio ma con gli uffici ancora attivi e illuminati, un alveare dove ogni impiegato abita da solo la sua celletta, è un simbolo potente dell’alienazione post-industriale.
Aveva «visto giusto», quindi? Sorride: «Posso dire di essermi occupato per cinquant’anni di un medium che in Italia non è mai interessato a nessuno, meno che mai alla nostra classe intellettuale. L’espressione “fotografia italiana” è una contraddizione in termini. Questo non era un paese destinato alla fotografia. Tutto lo spazio era già occupato dalla massa imponente della nostra tradizione d’arte. Gli intellettuali italiani non hanno mai degnato di uno sguardo questa parente povera, questa sorella disabile dell’arte che si fa a macchina. Il posto per lei è rimasto quello che le assegnò Baudelaire: umile servetta, senza autonomia espressiva. Quando le imprese mi chiamavano per un lavoro su commissione, mi dicevano “fammi questo, e fammelo così e così”: persone che magari non sapevano neppure cos’era un esposimetro. I grandi giornalisti inviati dicevano “il mio fotografo”, come un esploratore direbbe “il mio sherpa”... In America, paese visualmente vergine, il fotografo Walker Evans e lo scrittore James Agee lavorarono alla pari un libro celebre, da noi invece Vittorini strapazzò Luigi Crocenzi per Conversazione in Sicilia».
Il cinema ce l’ha fatta, però, a bucare quel muro supponente e dorato. «Fino a un certo punto. Il neorealismo è stato una versione del melodramma. La fotografia invece non aveva madri nobili a cui rifarsi». Ma Il Mondo di Pannunzio, lei ci ha collaborato, valorizzò la fotografia... «Purché genuflessa alla parola. Non erano foto, erano elzeviri visuali scelti e ”orientati” dallo scrittore. Il Mondo era pieno di foto, ma nella sua storia ha dedicato due soli articoli alla fotografia, tutti e due per la mostra romana di Cartier-Bresson».
Eppure, o forse per questo, per una missione di salvataggio, per uno spirito di rivincita, Colombo aggiunse un giorno alle sue mostre celebri, come L’occhio di Milano, ai suoi reportage, alle collaborazioni con le riviste d’architettura, insomma ai suoi mestieri, anche quello dell’archivista. Salvatore di foto altrui, altrimenti destinate all’oblio o alla pattumiera. Studioso di fondi considerati poco più che scatoloni di cartacce. Gli archivi delle grandi aziende, quelli delle istituzioni, quelli degli studi fotografici dell’Ottocento, dei fotografi freelance del Novecento, fino a quelli del Mozambico post-rivoluzionario che lo chiamò a Maputo a rimettere in ordine la memoria visiva orgogliosa di un paese intero.
Troppo tardi ormai per salvare la “sorella disabile”? La fotografia oggi è ovunque, quindi non è più nulla in sé. Dissolta nell’ambiente, inavvertita come il respiro. “Siamo tutti fotografi”, ha certificato perfino Paris Match. Con qualche anno di ritardo, si chiude il Novecento della fotografia? «Apparentemente nulla scuote più l’osservatore. La missione fotografica originaria, far conoscere il visibile, sembra esaurita per ridondanza. In effetti, il fotografo del futuro prossimo potrebbe essere un super-editor che deve solo rimescolare il già visto». Ma lei non crede che finirà così, dico bene? «Ho una fiducia, diciamo, statistica. Milioni di persone incontrano la fotografia. Nel mare della fotografia preterintenzionale, gestuale, della fotografia che vale come un “ciao come stai?”, sarà comunque più facile che a qualcuno venga voglia di andare oltre. Una buona reflex costa poco più di uno smartphone...». La fotografia è morta? «Non lo dirò mai. Certo, non sta molto bene. Ma io sono in attesa».

Michele Smargiassi, la Repubblica 6/7/2014