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 2014  luglio 06 Domenica calendario

JEFF, L’ANTI-SNOWDEN CACCIATO DALLA CIA PER TROPPA ONESTÀ

Alle sei del mattino ancora nel buio dell’autunno profondo di un novembre 2012, un corteo di Suv e di auto nere scivolò silenzioso davanti alla casa in Virginia di Jeffrey Scudder, la spia venuta dall’archivio. Due dozzine di agenti con le tre grandi lettere Fbi stampate sulla schiena dei giubbotti circondarono la casa dove lui viveva con la moglie e una figlia. Sciamarono dentro, ramazzarono tutto, computer da tavolo, lettere, estratti di banca, un GameBoy Nintendo, il portatile che la figlia usava a scuola e persino il diario privato della moglie. I loro ordini erano precisi: Scudder, per 19 anni funzionario e agente della Cia, superstite di missioni in Iraq, in Afghanistan, in Nigeria andava fermato. Era una minaccia letale per la «Compagnia»: una talpa che aveva commesso l’errore di pensare che la Cia credesse a quella Costituzione e a quelle leggi americane che aveva giurato di difendere.
Il crimine di Jeffrey Scudder, per quasi vent’anni prima field officer, agente sul campo e poi dirigente messo a pascolare nell’archivio storico della sede centrale Cia a Langley, era stata la curiosità, una dote apprezzabile in una spia ma micidiale se rivolta contro la propria organizzazione. I colleghi sul campo e poi negli uffici lo descrivono oggi come una persona un po’ frenetica, un iperattivo incapace di accovacciarsi nella comoda routine burocratica che domina qualsiasi struttura governativa, armata o disarmata. Nella noia del lavoro di catalogazione e di archiviazione, Scudder aveva avuto l’incarico di digitalizzare i quintali di carte e faldoni, ma nel farlo aveva scoperto una curiosa, anomalia: migliaia di rapporti, ricerche, studi, analisi che la “Compagnia” avrebbe dovuto rendere pubblici per effetto della FOIA, la legge sulla libertà di informazione, dietro richieste di enti o privati non erano mai stati resi pubblici.
Molti portavano ancora, nonostante le decisioni dei tribunali, la stampigliatura del «segreto». E di questa incongruenza, forse convinto che si trattasse della solita inefficienza burocratica, chiese conto al proprio superiore, che ne parlò al capo sezione, che ne discusse con il capo divisione che la portò al vice direttore. E questa talpa d’archivio, che altro non chiedeva se non di rendere pubblico ciò che sarebbe dovuto essere pubblico, fu immediatamente marchiato come un whistleblower, come un usignolo che volesse fischiettare segreti ineffabili, come un potenziale Snowden prima ancora che il nome di Snowden fosse conosciuto.
Il Washington Post al quale “la spia venuta dall’archivio” ha raccontato la propria storia, ha spulciato le oltre mille richieste di pubblicazione (di documenti già definiti «pubblici», ricordiamolo) mai evase, trovando materiale assai poco sensibile. Ricerche di storici sull’attacco giapponese contro Pearl Harbor nel 1941, quando ancora la Cia non esisteva, risalenti al 1954. Analisi di esperti di comunicazione condotte sulle possibili rivelazioni estraibili dalla visione della mortifera tv sovietica nel 1970. La parte svolta dell’Agenzia nella uscita clandestina e nella pubblicazione del Dottor Zivago di Pasternak in Occidente. Una ricerca sul ruolo delle donne nella Cia. Centinaia di incartamenti, a volte addirittura di ritagli di giornale.
Nessuno di quei circa mille e 600 dossier rimasti nel limbo della “Divisione Storica”, avrebbe potuto minimamente mettere a rischio la vita o il lavoro di spionaggio di agenti in attività nè scuotere ragnatele negli armadi della Guerra Fredda. Non erano certamente le denunce dell’agente John Kiriakou, che da un anno passa il tempo in un carcere federale per avere confermato la pratica delle torture sui prigionieri islamici come il waterboarding, condannato a tre. Non erano vergogne od operazioni sinistre come le intercettazioni e la messe di dati raccolti dal Grande Fratello elettronico, la NSA, che Snowden avrebbe portato con sé Mosca e dove resta, sordo alle promesse anche di Hillary Clinton di un giusto e generoso processo, se tornasse. E neppure quel materiale, già destinato alla diffusione avvicinava l’enormità dei “Pentagon Papers” di Daniel Ellsberg o allo scandalo scoppiato con Gary Webb, un altro funzionario della Cia che scoprì l’intrigo fra gli spacciatori di cocaina e il governo Usa per permettere di finanziare, con i soldi nei narcos, i guerriglieri anti-Somoza in Nicaragua, violando il veto del Congresso. Ma l’insistenza di Scudder, la ottusità dei burosauri della Cia bastarono per fare di lui un sospetto, o almeno una persona molto poco «grata».
Fu rimosso dall’ufficio Storico, spostato a incarichi più bassi, sospeso senza paga, sospeso con paga, ammonito, isolato, minacciato di licenziamento per violazione del patto di segretezza con perdita della pensione maturata nei 20 anni, in un crescendo di mobbing e di ripicche e di intimidazioni culminato nella denuncia per spionaggio e nell’irruzione dei G-Men, degli uomini dello Fbi, il cui compito è anche quello del controspionaggio. La moglie fu interrogata con le solite domande, «ha notato cambiamenti di umore?», «strani comportamenti?», «spese importanti improvvise e inspiegabili», rivolte ad agenti nemici. Nulla è venuto fuori. I computer, il laptop della figlia, il GameBoy Nintendo, i diari, i documenti di banca e gli estratti conto sono stati restituiti. Neppure un centesimo di violazione fiscale è stato trovato dal fisco, dall’Irs, che se vuole trovare violazioni o errori, di solito le trova. Jeffrey Scudder non ha processi a carico, ogni indagine è chiusa. E’ stato licenziato e lavora per una società privata che si occupa di sicurezza aziendale. Vittima non del fondamentalismo assassino, del Kgb, delle pillole al cianuro, ma dal nemico micidiale che consuma dall’interno tutte le organizzazioni di spionaggio. La paranoia.
Vittorio Zucconi