Gaia Piccardi, Corriere della Sera 7/7/2014, 7 luglio 2014
IL GIALLO DI NIBALI VINCENZO CONQUISTA TAPPA E MAGLIA. «UNA VITTORIA PER TUTTA L’ITALIA»
DALLA NOSTRA INVIATA SHEFFIELD — Sotto il cielo grigio acciaio di Sheffield, dove la seconda tappa del Tour arriva stritolata dall’abbraccio della gente e da nove colli spaccagambe, un siciliano orgoglioso piange in silenzio. Vincenzo Nibali è stato un uomo solo al comando per gli ultimi 2 km di una corsa nervosa, avanzata a strappi tra fughe finte e falsi allarmi, il fedele scudiero Michele Scarponi dice che è partito quando «gli è scappata via la gambetta», lasciando lì, imbambolati e impacciati nel reagire, Sagan (che non l’ha attaccato per riconoscenza e rispetto), Froome e Contador: non sarà una minuziosa analisi tecnica però rende bene l’idea dell’estro del campione d’Italia, lucido in corsa e istintivo nel finale, quando l’acido lattico annebbia il cervello, quando è stato chiaro (quasi) a tutti che la partita a scacchi nel bagno di folla dello Yorkshire sarebbe stata vinta da chi, per primo, avrebbe tentato l’arrocco, a costo di pentirsene.
Tappa e maglia gialla, insieme, è un sogno enorme che Nibali ha fatto ad occhi aperti con impudenza e coraggio, «oggi m’invento qualcosa» aveva sussurrato a colazione al d.s. Martinelli («È stato un grande! Ora può correre tranquillo»), la sua impresa al Tour (l’ultimo italiano leader era stato, per 8 tappe, Rinaldo Nocentini nel 2009) scomoda già paragoni ingombranti e pruriginosi — Marco Pantani re a Parigi nel 1998 —, però l’unica certezza, nella domenica bellissima del fidanzamento tra Vincenzo e la storia massima del ciclismo, è quel tris di maglie (rosa Giro, rosso Vuelta, giallo Tour) riuscito a Gimondi, mentre Froome e Contador, i grandi favoriti (Cavendish ritirato per i postumi della rovinosa caduta di Harrogate: probabile operazione alla spalla destra, stop di sei settimane), giacciono seppelliti da due secondi pesanti come monoliti, perché è il senso di ciò che Nibali ha combinato, più della sua reale entità numerica, a gravare su morale e classifica. «Tutti dicono che il Tour lo vincerà Chris o Alberto. Nessuno sembra tenere in considerazione i miei risultati. Mi godo il momento e non perdo la testa».
La linguaccia al mondo, il dito verso il cielo, le mani sulla maglia Astana ad accarezzare il tricolore, circondato dai marchi kazaki: «Una vittoria per l’Italia e gli italiani — sottolinea, con rabbia pacata —. Contro tutte le polemiche. Hanno scritto che sembro il campione ungherese… Ma quando mai? Ho sempre avuto fiducia in me stesso e nel lavoro fatto con Paolo Slongo, il mio preparatore, anche quando i risultati non arrivavano». È il giorno delle rivincite, delle dediche («A me, alla squadra, alla mia famiglia e a tutti i sacrifici che ho fatto»), delle promesse («Resto tranquillo: il vero Tour delle vere salite deve ancora arrivare. Metto in preventivo di cedere la maglia: non sarà un problema», però tenerla addosso stasera a Londra e nel trasferimento in Francia sarebbe magico), è il giorno in cui Vincenzo Nibali si aggira fiero per quel suk che è l’asfalto del rettilineo dopo l’arrivo di una tappa così densa tra rivali annichiliti, ammiraglie spompate, borracce, telecamere, tifosi, nani e ballerine.
Gli altri hanno il muro di Jenkin Road nelle cosce di piombo e lui cammina leggero con il leone di pelouche sotto il braccio (lo darà ad Emma, 4 mesi, quando verrà a trovarlo). Gracias, merci, thank you dice nel suo esperanto con accento siculo incassando sorrisi, complimenti e la benedizione di un signore vestito da Sherlock Holmes, che probabilmente è qui per cercare l’assassino del Tour senza sapere che, forse, gli ha appena assestato una gran manata sulle spalle.