Luigi Offeddu, Corriere della Sera 7/7/2014, 7 luglio 2014
IL DOLORE DELLE BALENE SVELATO DA UNA RICERCA CHE L’ISLANDA NON VUOLE PUBBLICARE
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE BRUXELLES — Quanto soffre Moby Dick? Troppo, per essere detto. Questo, forse, sta accadendo in Islanda: il governo, qualche mese fa, ha incaricato ufficialmente uno scienziato norvegese di studiare la durata dell’agonia nelle balene colpite dai ramponi esplosivi, tema da anni al centro di molte polemiche; ha promesso che, appena avutili, avrebbe diffuso i risultati completi della ricerca; ma finora niente, solo una sorta di silenzio di Stato che ha fatto infuriare gli ambientalisti, e agitato il Parlamento. Perché il governo non rivela quel che ha saputo dalla ricerca? E che senso ha avuto allora l’idea di dare l’incarico a uno scienziato norvegese, proprio perché straniero e presumibilmente indipendente?
C’è già il sospetto di un’azione sotterranea delle «lobbies» internazionali che lucrano (grasso e olio, carne, ossa, denti, pelle ricavati dalle balene) grazie al mestiere cantato da Melville; e aggirano o sfidano il bando-moratoria mondiale sottoscritto nel 1986 da 79 Paesi. Perché secondo i balenieri e i governi che ancora sostengono o tollerano questa caccia — Islanda, Norvegia e Giappone, più alcune tribù eschimesi della Groenlandia e di altre regioni nordiche — quel rampone dentato che porta una granata esplosiva alla pentrite, sparato in direzione del cervello, uccide sicuramente in 2 o 3 minuti. Con l’aiuto, però, di alcuni colpi di grazia sparati da un fucile (in genere da 3 a 9 in genere), o con almeno due scariche di una lancia elettrica. Ma secondo altre fonti scientifiche, la morte arriva in una media di 6 minuti; e secondo altri ricercatori ancora, soprattutto inglesi, per i corpi immensi dei cetacei che arrivano alle 10 tonnellate può non bastare un’ora, un’ora e mezza di sofferenze.
E le balene sono mammiferi, animali a sangue caldo, che la scienza e le leggende dipingono vicini a noi e alla nostra capacità di soffrire. In Norvegia, fra le prede sono state registrate agonie di 90 minuti, e in Giappone perfino di 130. In Norvegia, dove si usano granate più perfezionate, «solo» il 20% dei cetacei arpionati non morirebbe all’istante per «ingiuria traumatica cerebrale». In Giappone, dove ufficialmente si caccia «a scopo di ricerca scientifica», come del resto in Islanda, la stessa percentuale sfiorerebbe il 60% dei casi. Spesso la granata non arriva neppure al cervello, o non esplode: in una sola stagione di caccia dei balenieri giapponesi è stato accertato che appena 1310 granate su 2758 sono esplose, colpendo il bersaglio. Ma sono soltanto dati sparsi, e il resto è come un oceano inesplorato di mezze verità: circa due milioni di balene sono state uccise nei mari di tutto il mondo durante il secolo scorso, e 28 mila da quando nel 1986 il bando-moratoria è stato firmato da tutti i Paesi coinvolti meno Norvegia, Giappone e Islanda.
Una recente sentenza inappellabile della Corte di Giustizia Ue, che condanna la caccia con questi metodi, fornisce oggi una base giuridica alla polemica: ma dalla sentenza alla sua messa in opera, ci vorrà del tempo. E comunque il Giappone non è membro della Ue; né lo sono — almeno finora — Islanda e Norvegia, pur avendo con Bruxelles molti accordi economici e condividendo molti dei principi comunitari. Ma il vero problema è che non vi sono certezze, un po’ come nella polemica sulle uccisioni dei cuccioli delle foche: questa guerra non è solo economica o scientifica, ma anche ideale. Da quando, nell’anno 800, nella baia di Biscaglia dove le femmine dei cetacei si recavano a centinaia per partorire, iniziarono i primi massacri.
Secondo il gruppo «Whaleswatch», «se si discutesse solo del benessere degli animali, tutte le operazioni di caccia alle balene dovrebbe essere interrotte». Invece il dottor Harry Lillie, medico di bordo su una baleniera in Antartide durante l’ultima Guerra, annotava sul suo diario: «Se immaginiamo un cavallo con due o tre lance esplosive nello stomaco, poi costretto a tirare sanguinante il carretto di un macellaio per le vie di Londra, possiamo avere buon’idea dei metodi di uccisione delle balene. I balenieri stessi ammettono che se le balene potessero gridare, tutta l’industria della pesca si fermerebbe, perché nessuno potrebbe resistere a quelle grida».