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 2014  luglio 05 Sabato calendario

RISTORANTE A UN EURO PER CHI È IN DIFFICOLTÀ IL SOGNO DI PELLEGRINI


MILANO — Il piede mancino di Brehme il biondo. Il tiro-saetta di Matthäus il duro. E le ossa leggere di Ruben il contadino che abitava in una stalla insieme a due cavalli, dormiva sulla paglia, come armadio aveva tre chiodi piantati nel muro, la domenica finiva in trattoria, un intero pollo arrosto per la fame, un’intera bottiglia di vino rosso per la sbronza di felicità.
Ruben che morì da barbone senza esserlo; Ruben che diventerà un ristorante per i barboni che non lo sono: papà separati, cinquantenni licenziati, persone schiantate dai debiti, e poi ex carcerati, profughi appena sbarcati, parenti dei malati in trasferta. Il ristorante «Ruben» aprirà a settembre in via Gonin 52. Cinquecento coperti su due turni, dal lunedì al sabato. Via Gonin è periferia sudata e affannata, di tram pieni e parchi sporchi, di facciate di palazzi con le crepe e lunghe chiacchierate sui ballatoi. Il prezzo sarà di 1 euro e i clienti verranno inviati da parrocchie, centri d’ascolto e realtà del volontariato. L’obiettivo sarà accogliere e offrire uno spazio ospitale, lontano dagli stereotipi degli stanzoni dell’emergenza. Non un trucco: piuttosto un tentativo per far ritrovare dignità, fin dall’impatto visivo. E non una soluzione definitiva: permanenza massima di due mesi, perché a un certo punto ci si deve alzare per forza.
Le vite intense, anche quelle ordinate, possono permettersi più amori. E naturalmente escludendo la moglie Ivana e la figlia Valentina, per tacere dell’azienda che a 73 anni dirige lavorando se serve quattordici ore al giorno, Ernesto Pellegrini, di amori, ne ha avuti altri. E s’è comportato di conseguenza. Con quei formidabili campioni tedeschi (c’erano anche Rummenigge e Klinsmann) della sua Inter da presidente, tra il 1984 e il ‘95, ancora si tiene aggiornato. Sms dal telefonino piccolo e datato; sono testi brevi, concisi, di saluto e di domande su come va. Da entrambi le parti è d’obbligo il lei. Anche Ruben fu uno da lei. («Ero ragioniere e per lui me lo meritavo...»). Pellegrini gli intitolerà il ristorante alla memoria, mezzo secolo dopo. Quand’era bambino e ragazzino, in via Bonfadini — di nuovo periferia, distese di terra feconda trasformate in palazzi popolari —, nella cascina che la famiglia Pellegrini divideva in affitto con altre famiglie, c’era un contadino. Ruben, per l’appunto. Arrivava da Cremona. Faticava nei campi: con l’aratro, con la vanga, con le mani. A un certo punto, per far posto a progetti edilizi, la cascina fu abbattuta e la gente cacciata. Agli inquilini (tutti poveri, i Pellegrini erano ortolani) furono date due stanze dove capitava in città. Chi non aveva un alloggio, come Ruben, si dovette arrangiare. Pellegrini aveva vent’anni. Aveva iniziato a lavorare alla Bianchi. Lo stipendio serviva per far quadrare i conti di casa. Però ci pensava, a Ruben. Aveva (e si era) promesso d’aiutarlo. Gli avrebbe trovato un’occupazione e un appartamento. Serviva giusto un attimo di pazienza, si ripeteva, le cose si sarebbero aggiustate. Il tempo di mettere da parte qualche risparmio. Una mattina Pellegrini sfogliò un quotidiano. E lesse il grande titolo: «Barbone muore assiderato nella sua baracca». Era Ruben. Il ristorante è il primo passo della Fondazione Ernesto Pellegrini, nata lo scorso dicembre per volontà del presidente, della signora Ivana, di Valentina e di suo marito Alessandro Ermolli.
Nell’ufficio all’ultimo piano ci sono un poster dell’Inter, una foto di lui che scende dall’aereo imbracciando una coppa Uefa e un dipinto dono della moglie. Nel quadro ci sono quella vecchia cascina sperduta nel niente e in primo piano un ragazzo in bicicletta che sfreccia: è Pellegrini, che partiva per la Bianchi dove intanto, miscelando grinta e conoscenza del prossimo (e dei suoi segreti intimi...) aveva convinto uno dei capi a concedergli un prestito per lanciarsi nel settore della ristorazione. Camicia e cravatta ma non la giacca, con Pellegrini si finisce a parlare di Inter, ma il presidente è concentrato su altro, e dunque proseguiamo. Sul tavolo c’è una lettera. A questo punto dovete sapere due cose. Pellegrini, come gli innamorati, è geloso e timido. Gli chiediamo come fosse, fisicamente, questo Ruben. Ed ecco, mica lo dice. «Vede, descriverglielo... Sono io che ce l’ho ben visualizzato davanti, capisce?». Quanto alla lettera, siccome le parole gli si fermano, l’ha scritta per spiegare il significato del ristorante a se stesso, agli altri e in fondo anche a Ruben. «La Fondazione è un modo per ringraziare il buon Dio del tanto che ho avuto dalla vita. E ho voluto farlo partendo da quello che so fare meglio: ristorare le persone. Ruben ha lavorato per tre generazioni nella mia famiglia... Ruben non sono riuscito ad aiutarlo. Oggi però vorrei aiutare qualcuno dei tanti Ruben che vivono il loro momento di difficoltà e di disagio. Io ho sempre conservato nel mio cuore il ricordo di quell’uomo buono e lavoratore».