Renato Franco, Corriere della Sera 5/7/2014, 5 luglio 2014
«GENIO E REGOLATEZZA, VITO CATOZZO ANTICIPÒ TUTTI»
[intervista a Michele Mozzati] –
«Aveva colto il meccanismo dell’ignoranza buona, metteva in scena concetti che ti portavano matematicamente alla risata: il maschilismo esasperato; l’orrore per la diversità dei gay; la cultura bassa e lo storpiare le parole; la moglie grassa, quella con cui aveva fatto sette figli in sei anni nonostante prendesse la pillola. Sono meccanismi “facili”, ma poi tutto dipende dalla qualità della gestione di questi meccanismi, se no tutti saprebbero far ridere». È Vito Catozzo, il personaggio più riuscito di Giorgio Faletti, nelle parole di Michele, l’altra metà del duo con Gino. Hanno lavorato insieme a Drive In , L’araba fenice, Emilio, Zelig ...
Qual era la sua cifra?
«Come tutti i grandi comici sapeva cogliere le cose più facili e dunque più difficili della risata. Mi viene in mente Tamburino, lo stilista di Abbiategrasso, ovviamente gayissimo: ne faceva una caricatura pesante, ma raffinata, il tocco geniale era che fosse di Abbiategrasso. Lo stilista gay l’hanno fatto tantissimi comici dopo di lui. Lo stesso Vito Catozzo è stato anticipatore, quel personaggio ora ricorre nella comicità, basta pensare, nella sua diversità, altrettanto comica, all’Alex Drastico di Albanese».
Il primo incontro non si ricorda mai...
«Come tutti i primi incontri... A memoria, l’ho conosciuto ad Antenna 3, a Non lo sapessi ma lo so , la trasmissione che ha lanciato Boldi e Teocoli, nel 1980, alla nascita delle tv commerciali. Antenna 3 era potentissima, faceva trasmissioni ricchissime, era finanziata da molti industriali lombardi. E in questa trasmissione c’era anche Faletti-Catozzo».
Faletti veniva dal Derby, lo storico locale di cabaret di Milano.
«Giorgio aveva una caratteristica straordinaria come tutti i cabarettisti milanesi — era di Asti, ma milanese d’adozione — quella di essersi costruito sul palco del cabaret. Il Derby era una palestra di improvvisazione straordinaria. Faletti era però anche una persona molto rigorosa. Scriveva pezzi perfetti, li provava e riprovava, aveva la serietà del professionista di teatro».
Una doppia anima di improvvisatore e professionista, genio e regolatezza?
«Sì, lui era forse il più attento a quella parte di costruzione rigorosa dei pezzi. Si voleva talmente bene sul palco — in tutti i lavori che ha fatto anche dopo — che gli seccava tantissimo salire impreparato, come quei musicisti che non improvvisano per paura di sbagliare una nota. Era talmente rigoroso, che scrisse Signor Tenente, si presentò a Sanremo e fece uno straordinario successo con un pezzo parlato».
L’ultimo ricordo?
«Qualche anno fa, nella sua isola d’Elba. Si esibiva in una specie di piano bar par gli amici, tra cui noi, e lo spettacolino era ovviamente in via amichevole, ma Faletti ci metteva lo stesso impegno che ci avrebbe messo Frank Sinatra al Madison Square Garden. Questo è Giorgio, era così. È anche uno dei suoi limiti: è più facile amare le persone confusionarie e confuse di quelle rigorose. Però lui deve moltissimo del suo successo al credere in quello che faceva. Ci sono tanti bravi che non ci credono, lui ci ha sempre creduto tantissimo. Nonostante gli occhi azzurri».
E che c’entrano gli occhi azzurri?
«Un comico con gli occhi azzurri che fa successo è una rarità».