Antonio D’Orrico, Corriere della Sera 5/7/2014, 5 luglio 2014
I ROMANZI CHE SOGNAVI
Caro Giorgio, pochi minuti fa mi hanno chiesto di scrivere il tuo coccodrillo (come si chiama in gergo il pezzo sulla morte di una persona).
Lì per lì, te lo confesso, ho pensato, ed è stato il primo riflesso, di rifiutare di farlo. C’è qualcosa di osceno nello scrivere un necrologio. E lo disse perfettamente Christopher Hitchens, il giornalista inglese. Disse che i giornalisti, sotto sotto, amano scrivere i coccodrilli perché è la sfida estrema dello stile. E ci credeva così tanto Hitchens da arrivare a scriversi, in diretta, il suo necrologio. Era pieno di stile.
Però poi mi è venuta in mente Sherazade, la protagonista delle Mille e una notte , che grazie alla suspense dei suoi racconti riusciva a rinviare, di volta in volta, la morte. Tante volte i giornali si sbagliano e danno per morto uno che non lo è. Certo, se la magia di Sherazade fosse possibile, scriverei il tuo necrologio a vita come quei parlamentari che fanno ostruzionismo e parlano ininterrottamente senza mai lasciare l’aula. Siccome la curiosità non ti è mai mancata, immagino che vorresti sapere che cosa ci metto nel tuo coccodrillo. Di sicuro ci metto la prima volta che ci siamo visti. Fine 1993? Primissimo 1994?
Tu eri un comico di Drive In e volevi andare a cantare una canzone a Sanremo e l’avevi incisa in una cassetta. Passasti dalla Baldini & Castoldi, la casa editrice che ti aveva pubblicato un libro, perché avevi bisogno di far sentire quella canzone a qualcuno.
Ma non c’era nessuno. C’ero io. Meglio di niente, devi esserti detto. Non ci si conosceva quasi. Mi chiedesti: «Ce l’hai un minuto?».
Ti seguii fuori. Ci chiudemmo in macchina, un’utilitaria. Infilasti la cassetta nel mangianastri. Finestrini serrati. Come spie. Perché, per il regolamento di Sanremo, quella canzone non doveva sentirla nessuno prima della gara. Pena l’esclusione dal Festival.
Mentre ascoltavo, tu eri un po’ nervoso e un po’ fiero (sei sempre stato così). La canzone era «Minchia, signor tenente» . E così la sentii per la prima volta. Ti dissi che mi piaceva molto. Tu sorridevi ma non eri appagato. Andasti via. A farla sentire a qualcun altro, pensai.
Ti avevo detto la verità. Mi era piaciuta davvero. Tanto che ci puntai sopra una grossa scommessa (soldi che quasi non avevo). Giocai «Minchia, signor tenente» prima al Festival. Arrivò seconda (perché Sanremo è Sanremo e non potevano far vincere un rap tragico scritto da un cabarettista).
Non ti ho visto più per nove anni. Non buoni anni per te. Non eri più un comico, non eri diventato un cantante. Avevi lasciato Milano e te ne stavi all’Elba. Pensavi di rilevare un alberghetto dove la sera magari tenere uno spettacolino per gli ospiti cantando qualcosa alla chitarra. E poi, di pomeriggio, andare a correre con la macchina come un pazzo sul vecchio circuito del rally dell’Elba, tu che eri stato pilota ufficiale della Lancia.
Prima di firmare la resa e, contemporaneamente, l’assegno per comprare l’albergo, scrivesti un libro. Un thriller. Di gusto e ambientazione internazionale (Montecarlo, principato di Monaco, teatro della gara più bella della tua amata Formula Uno).
L’ufficio stampa della Baldini & Castoldi mi mandò il libro, Io uccido . Passai la notte sveglio a leggerlo. C’era azione e c’era malinconia. C’era la disperazione e c’era la speranza di chi l’aveva scritto. La mattina chiamai l’ufficio stampa Baldini. Mi dissero che il libro lo avevano dato al «Venerdì» che avrebbe fatto un pezzo in anteprima. Gli dissi che avrei fatto la copertina di «Sette» sparando altissimo. «Venerdì» cosa? Dissero loro.
Venni a intervistarti all’ospedale di Niguarda. Nel frattempo avevi avuto un ictus (tanto per non farsi mancare niente, come avresti detto tu). Eri vivo per miracolo. Non fu una grande intervista. Biascicavi, io mi sentivo Jack lo Squartatore. Cercavi di fare qualche battuta. C’era un gioiello di ragazza al tuo fianco. Roberta, tua moglie. Non capiva cosa stava succedendo. Il romanzo, l’ictus, la storia di copertina, le flebo, l’intervista. I fili del destino si erano tutti imbrogliati.
Poi tornarono tutti lisci. Il successo. Un titolo diventato proverbiale «Voi non ci crederete ma quest’uomo è il più grande scrittore italiano» sopra la foto di te seduto alla scrivania. Un titolo che ci ha perseguitato per anni. Nessuno sapeva che in realtà era una vecchia scommessa finalmente riscossa. Ma era una persecuzione che faceva allegria. Tu vendevi milioni di copie.
Continuasti a scrivere bestseller. A prendere decine di pillole al giorno (uno squillo del telefonino ti avvisava quando era l’ora) perché non ti tornasse l’ictus. E un giorno un personaggio così lo trovai in un tuo romanzo. Ti prendevi in giro.
Finora ho fatto il bravo, Giorgio, ma l’angoscia mi sta soffocando. Scusami, prendo qualche appunto per non dimenticarmi le cose che volevo dire. Un appunto è per il pastrami gigantesco che mangiammo quella volta per festeggiare di esserci trovati per caso a New York.
Un altro appunto è per quella volta che venni a intervistarti all’Elba per il tuo secondo romanzo. Ti stavi rifacendo la casa. Nelle fondamenta, su un muro maestro, avevi scritto con la vernice: Io uccido. Era una dedica. Un gesto di gratitudine. Quel giorno all’Elba lavorammo duramente, l’intervista, le fotografie (di Mauro Galligani).
Poi mangiammo da Pilade («Guarda che qui hanno calamari come quelli di Ventimila leghe sotto i mari , non come quelli che danno a Milano e che sembrano bianchetti al confronto») e tornammo a bere l’ultimo bicchiere nel tuo giardino. Per qualche minuto fummo soli. A parte il gatto rosso. Non dicemmo una parola, non ce n’era bisogno, ma fu un lungo discorso. Riguardava la vita, i suoi agguati, le sue sorprese, la sua ironia, i doni che fa, le cose, le persone che prende. Poi, però, subito mi raccontasti una barzelletta che in un necrologio non si può riportare. E nemmeno in un pezzo normale.
Il rito, la consuetudine, era che a ogni uscita di un tuo romanzo mi facevi avere le bozze prima (poi il pdf quando ci siamo tecnologicamente aggiornati). Io leggevo subito. Tutta la notte. Poi ti telefonavo. E quando dicevi «pronto» sentivo la tua tensione. Ti giocavi tutto ogni volta, non ti risparmiavi.
E miglioravi sempre perché, come dicevi, avevi cominciato a scrivere scrivendo i romanzi che avresti voluto leggere e avevi continuato scrivendo i romanzi che avresti voluto scrivere. Si diventa scrittori scrivendo.
E uno dei romanzi che avresti voluto scrivere era Appunti di un venditore di donne che comincia con una frase che è un colpo di rasoio: «Mi chiamo Bravo e non ho il cazzo». Era il romanzo in cui ti ricordavi dei tempi del Derby, della Milano di quando eri ragazzo.
E un altro dei romanzi che avresti voluto scrivere era Tre atti e due tempi . La storia di un padre e di un figlio. Il padre ex pugile corrotto. Il figlio promettente calciatore. Niente grattacieli, come nei tuoi romanzi all’americana, ma una città piccola, silenziosa, come la tua Asti. Niente thriller ma una suspense diversa, non quella di chi uccide e di chi viene ucciso, ma quella di chi semplicemente vive e vede un brutto fantasma che torna.
È stato da quel bellissimo libro che ho capito che gli anni erano passati, che il tempo lavorava di malinconia, di sottrazione, che tu, Giorgio Faletti (il bestsellerista), sentivi la mancanza di certe cose e non c’era più tempo per averle.
Intanto, eri tornato a essere un attore di successo con il ruolo di un professore carogna che carogna alla fine non era. Le scolaresche di tutta Italia ti adorarono. Incidevi dischi. Facevi pure il pittore. Eri, con la tua discrezione, sempre alla ribalta. Ma c’erano cose segrete che facevi, spettacoli clandestini. Un Natale (o un capodanno, scusa, faccio confusione) che tua madre era in ospedale avevi messo su una recita per lei e le altre ricoverate.
Finché un giorno sono venuto ad Asti per una ennesima intervista in quella casa affacciata su quella strana piazza sbilenca. Stavolta era un’intervista televisiva e tu hai dato il meglio perché davanti alle telecamere ti sentivi a tuo agio, come se ci fossi nato. Una bellissima intervista e, poi, verso la fine hai fatto un discorso sulle cose ultime, con un filo di voce, partendo da tuo padre e da tua madre, dalle persone che avevi perduto.
Hai trattato il tuo successo con levità, senza dargli tanta confidenza. Come un impostore, avrebbe detto Kipling. Ti dava la libertà e solo per questo era importante. E ci facevi battute sopra: «Quando diventi famoso cominciano a dire di te che sei gay o che hai un cancro». Ma, vi prego, doveva rimanere solo una battutaccia.
Mi pare di ricordare che ti devo una cena. Mi salutavi dicendo ogni volta: «Ciao, bell’uomo». Per favore, dimmelo una volta ancora che mi ha sempre fatto piacere. Giorgio, spero che la magia di Sherazade funzioni, che raccontandoti si rimandi la morte. Incrocio le dita. No, non le incrocio, hai ragione, se no non posso continuare a scrivere…