Tomaso Clavarino, Corriere della Sera 5/7/2014, 5 luglio 2014
LA MOSSA SEGRETA DI 53 LEADER AFRICANI: IMMUNITÀ VOTATA CON UN’ALZATA DI MANO
Hanno fatto uscire i giornalisti, chiuso le porte e votato. Per che cosa? Per garantirsi l’immunità da alcune delle accuse più gravi previste dalla legislazione internazionale: genocidio, ma anche crimini di guerra e contro l’umanità. L’hanno fatto in silenzio, cercando di nascondere la decisione in un lungo comunicato pieno di parole e irrilevanti informazioni. Cinquantatré capi di Stato e rappresentati dei paesi africani — solo il Botswana ha votato contro — hanno alzato la mano e, in pochi minuti, hanno fatto fare un passo indietro di decenni alla lotta contro l’impunità e le violazioni dei diritti umani in un continente lacerato da conflitti armati e violenze cavalcate con astuzia da molti governi. L’hanno fatto durante la 23esima sessione ordinaria dell’Unione Africana, svoltasi a Malabo, in Guinea Equatoriale, dove a fare gli onori di casa vi era l’eterno presidente di questa piccola ex colonia spagnola, Teodoro Obiang Nguema Mbasogo, in carica dal 1979 e ripetutamente accusato di reprimere nel sangue qualsiasi forma di opposizione.
«I rappresentati dei governi africani avrebbero dovuto solamente adottare un protocollo per rendere operativa finalmente dopo sei anni di stallo la nuova African Court of Justice and Human Rights, nata da una fusione tra l’ African Court of Justice e l’ African Court on Human and People’s Rights, e incaricata di indagare su crimini come il genocidio e la violazione dei diritti umani nel continente africano – spiega Netsanet Belay, direttore di Amnesty International in Africa –. Ma di nascosto, e con un emendamento del quale non si era mai avuta notizia prima, sono riusciti a garantirsi l’immunità». Un’immunità che sarà valida per i capi di Stato e di governo in carica ma anche, in maniera molto generica, per gli alti funzionari governativi. «I leader africani hanno deciso di ripararsi dietro ad uno scudo e di ridurre drasticamente i poteri della nuova corte — continua Netsanet Belay — Una decisione in contraddizione con lo stesso atto costitutivo dell’Unione Africana e con gli obblighi e gli impegni presi dagli stati membri sul tema del rispetto dei diritti umani».
Una decisione tutto sommato in linea con le forti tensioni degli ultimi mesi registrate tra i vertici della stessa Unione Africana e della Corte penale internazionale dell’Aja (Icc), dove due presidenti africani sono indagati, il sudanese Omar Hassan al-Bashir e il kenyano Uhuru Kenyatta, e uno è in custodia in attesa del processo, l’ivoriano Laurent Gbagbo. L’Unione Africana ha infatti attaccato recentemente la Corte accusandola di neocolonialismo e di accanirsi sui leader africani. Il voto andato in scena la scorsa settimana a Malabo, ma del quale non si è saputo nulla fino all’altro ieri, nonostante la sua gravità, pare tuttavia essere più simbolico che altro: se i leader africani non potranno essere indagati dalla African Court of Justice and Human Rights potranno tuttavia continuare ad esserlo da parte della Icc.
Di certo il voto è un promemoria per ricordare che nonostante i passi avanti verso la democrazia fatti da alcuni paesi, l’impunità rimane intrinseca alla cultura politica dell’Africa post-coloniale, e allo stesso tempo potrebbe spingere presidenti come Robert Mugabe in Zimbabwe, da 33 anni al potere, Paul Biya in Camerun, in carica dal 1982 o l’angolano José Eduardo Dos Santos, al vertice del paese dal 1979, a posticipare ulteriormente il loro pensionamento per evitare di incappare in possibili azioni giudiziarie al termine del loro mandato.