Dario Di Vico, Corriere della Sera 5/7/2014, 5 luglio 2014
IN CINA NON TROVANO LA QUALITÀ E LE FABBRICHE TORNANO IN ITALIA
Gli industriali delle calzature erano stati tra i primi o comunque tra i più convinti nel delocalizzare. Oggi il loro presidente Clelio Sagripanti può dire che siamo di fronte a una netta inversione di tendenza e si ritorna a produrre nel nostro Paese «dove ci sono imprenditori con il camice bianco vicini a dipendenti al mattino e in conference call con i mercati più lontani al pomeriggio». Anche l’Anie, l’associazione delle industrie elettriche ed elettroniche, nella sua assemblea ha raccontato come diversi associati abbiano maturato la stessa scelta. E i nomi sono Fiamm, Carraro, Whirlpool e Felm. In inglese si chiama back reshoring, in italiano tendiamo a tradurlo come ri-localizzazione. E’ la politica industriale che non ti aspetti e che è andata maturando per un convincimento spontaneo e non certo per adesione a un appello di patriottismo economico. Giovanni Tamburi, grande esperto di acquisizioni e aziende familiari, dietro il reshoring vede innanzitutto «una disillusione» sui vantaggi di produrre in Cina. «Il costo del lavoro sta esplodendo, la moneta è stata rivalutata, i tempi e i flussi di finanza si sono rivelati ingestibili e in molti casi i partner locali si sono rivelati inaffidabili». I numeri elaborati da uno studio del consorzio universitario Unimore danno ragione a Tamburi: una buona metà degli 80 casi censiti segna un ritorno a casa dai paesi asiatici, mentre più di venti sono i casi di reimpatrio da Russia ed Europa dell’Est.
I motivi del ritorno a casa sono svariati: dall’aumento dei costi logistici ai ritardi nelle consegne fino alla mancanza di tecnici preparati e lavoratori ad alta competenza. Ma se dovessimo sintetizzare potremmo dire che il driver sta nella ricerca della qualità. Insomma chi ha sempre sostenuto che l’Italia deve cercare «una via alta» della competitività può trovare nel fenomeno del reshoring una conferma significativa e soprattutto non ideologica. Ha raccontato al Corriere di Bologna Marco Palmieri, presidente della Piquadro (valigie): «Se domani va il verde o un certo punto di verde a spiegarlo a un produttore asiatico ci metto un anno. Da noi è il fornitore toscano a propormelo. Lavorare in una nazione in cui nascono le idee della moda è impagabile». Molti degli industriali che hanno fatto questa scelta sono nel Centro Italia e rispondono ai nomi sono quelli di Bonfiglioli, Faac, Furla e Beghelli. Tutti nello loro testimonianze sottolineano il valore ineguagliabile delle filiere italiane che riescono a contemperare eccellenza dei design, velocità di esecuzione e prodotti di primissima fascia. Fin qui restiamo nel campo della migliore tradizione del made in Italy “artigianale”, secondo però quanto emerso da un’indagine Anie spuntano anche altre considerazioni che possiamo catalogare alla voce «innovazione». Chi è tornato indietro è particolarmente attento al cambiamento tecnologico e ai nuovi modelli organizzativi. Nello slang confindustriale tutto ciò viene chiamato «fabbrica 4.0» e indica che chi rientra lo fa per migliorare, anche nell’elettronica , il prodotto finale.
Quanto vale a livello di sistema italiana il back reshoring? E’ pura fenomenologia industriale o ci si può far conto per affrontare i nostri problemi sistemici? La risposta degli esperti è semplice: se vogliamo irrobustire il Pil manifatturiero forse è la strada più concreta e meno immaginifica. Ma tra tanto ottimismo vale la pena ascoltare il caveat di Gregorio De Felice, capoeconomista di Intesa Sanpaolo: «Prima di dare un giudizio ponderato c’è bisogno di una casistica più ampia e robusta. Per ora paragonare il nostro reimpatrio al reshoring americano è francamente un azzardo» .