Nino Materi, Il Giornale 7/7/2014, 7 luglio 2014
L’ULTIMO ATTO DELLA CRISI: CAPANNONI SCOPERCHIATI PER PAGARE MENO TASSE
Un capannone senza tetto come metafora di un’imprenditoria senza speranza. Senza fiducia nel proprio Paese. Un brutto sentimento. Che lacera anima e cervello. Quando si arriva a «scoperchiare» il proprio capannone per ridurre il peso dell’Imu, vuol dire che si è allo stremo. E allo stremo sono in tanti, in una nazione che non capisce. O finge di non capire. I giornali del Nord Est sul tema hanno le antenne sensibili. E così, battendo palmo a palmo gli uffici comunali, è venuto fuori che negli ultimi tre anni si sono moltiplicate le domande per le «rimozione delle coperture apicali» (la burocrazia i tetti dei capannoni li chiama così: «coperture apicali»).
Per ottenere il nullaosta, il «richiedente» deve dimostrare che l’azienda è in uno stato di «grave sofferenza», tale da pregiudicarne «in toto o in parte la produttività». Che sono esattamente le condizioni in cui versano ormai migliaia di ditte. Ciò fatto si dovrebbe ottenere (con la burocrazia il condizionale è sempre d’obbligo) dall’«ufficio preposto» il via libera alla «rimozione» del tetto del capannone. Una «menomazione» che implica la «decurtazione» dell’Imu (la famigerata imposta municipale unica), il cui pagamento potrà anche essere dilazionato. Le cronache che descrivano questo inquietante scenario oscillano fra attonita incredulità e pragmatica constatazione. A mezz’aria fluttua una maledetta domanda: ma com’è possibile che le tasse possano spingerti a «sfregiare» quanto hai di più caro al mondo? Il capannone è per un piccolo imprenditore l’equivalente della casa. In tanti amano definire i propri operai la loro «seconda famiglia». Si badi bene: non c’è nulla di retorico in queste definizioni; non si tratta di un vezzo, in molti casi è la pura verità. I nuovi padroncini (nulla a che fare con lo stereotipo dei vecchi cummenda) sempre più spesso lavorano fianco a fianco con i propri dipendenti, indossano le loro stesse tute, soffrono gli stessi patemi della crisi. Poi, un brutto giorno, arriva il crac finanziario, l’ombra del fallimento si allunga. E allora, per risparmiare almeno sull’Imu, ecco l’idea: rendere «inagibile» il capannone privandolo della sua «copertura apicale». Per chi è costretto a questa scelta, una sconfitta umana e professionale. Roba difficile da digerire. Uno degli imprenditori storici dell’ex florido distretto del legno della Sculdascia (Padova) ha le lacrime agli occhi ma ancora tanta dignità. Forse per questo chiede che non venga scritto il suo nome. Chissà, magari immagina tra breve di ricoprire nuovamente il tetto del suo capannone che è stato costretto a scoperchiare perché impiccato dalle tasse; «impiccato», una parola doppiamente lugubre da queste parti, considerati i tanti suoi colleghi che, disperati, si sono impiccati davvero. I più «fortunati» hanno chiuso i battenti, o si sono ridotti a imprenditori «senza tetto». Piccoli industriali ormai a produttività zero, ma che lo Stato vuol continuare a spremere come limoni. Anche se ormai si tratta di limoni secchi in un campo devastato dalle cavallette.
«La mia azienda - ricordava l’imprenditore qualche tempo fa dalle colonne del Mattino di Padova - è nata negli anni ’70 e incarna il modello di sviluppo tipico di un mobilificio di Casale. Da giovane falegname avevo un piccolo capannone di 300 mq che poi negli anni si sono triplicati per accogliere i nuovi dipendenti (11 in tutto) e rispondere alle richieste di un settore che, nei tempi d’oro, garantiva fatturati di milioni di euro l’anno. Poi l’arrivo della crisi, il tramonto del mobile in stile, i costi che superano le entrate. La chiusura». Ma lo Stato non si rassegna, continua a trattarlo come fosse una gallina dalle uova d’oro. Ma, quelle «uova», non sono più d’oro. Anzi, non ci sono più neppure le uova. La realtà è sotto gli occhi di tutti, a non vederla è solo il fisco: «Pago tasse pur senza aver più guadagni. Su tutte l’Imu, che mi preleva almeno 4-5 mila euro l’anno. Nel 2013, tra errori e conguagli, ho dovuto sborsare 10.600 euro».
In treno, lungo la linea adriatica, dai finestrini dello scassatissimo Intercity Frecciabianca lo skyline dei capannoni «decapitati» ricorda molto da vicino il paesaggio da day after industriale del Nord Est. Si passa dall’Emilia Romagna alle Marche, poi si tocca l’Abruzzo e il Molise, fin giù in Puglia. Ovunque lo scenario dei capannoni, versione en plein air, è lo stesso: lì dove un giorno si produceva ricchezza, oggi c’è solo desolazione. «Neanche i macchinari sono riuscito a vendere - ci racconta un imprenditore che operava nel ramo laterizio -. Ogni tanto torno qui, dove ho lavorato - e dato lavoro - per una vita intera. Resisto solo pochi minuti perché questi muri diroccati, queste finestre sfondate, questi oggetti arrugginiti sembrano guardarmi, accusandomi».
Parole che pronuncia nel suo capannone, ormai ridotto in rudere. Anche qui il tetto non c’è più. Volgendo gli occhi in alto si vedono solo nubi nere. Chissà se il cielo tornerà azzurro.