Giuliano Malatesta, Il Venerdì 4/7/2014, 4 luglio 2014
THAT’S ALL RIGHT: QUI, SESSANT’ANNI FA, È NATO IL MITO DI ELVIS PRESLEY
Tutto cominciò, un po’ a sorpresa, un’arida e calda giornata estiva del 1953 a Memphis, quando un giovanotto timido e insicuro, che probabilmente non era in grado di leggere neanche uno spartito, fece il suo ingresso alla Sun Records, un vecchio edificio di mattoni rossi una manciata di chilometri fuori downtown. Ad accoglierlo una donna bionda di 35 anni rinchiusa in uno striminzito ed elegante completino di cotone, Marion Kessler, passata alla storia come come colei che scoprì Elvis Presley. «Who do you like sound?», chiese lei, gentile; «I don’t sound like nobody!», rispose lui, serio.
Elvis disse che avrebbe voluto registrare qualcosa per il compleanno della madre, («to surprise my mother» furono le sue parole), ma la storia del regalo non regge, considerato che il compleanno di Gladys Presley cadeva in primavera. Forse il ragazzo che viveva ancora con i genitori, in apparenza così fragile e sprovveduto, aveva già le idee chiare. Quel giorno scelse di autoregistrare per 3,98 dollari più tasse due canzoni, That’s When Your Heartaches Begin e My Happiness, una ballata romantica del 1948 di Jon e Sandra Steele.
Marion Kessler, all’epoca assistente alla Sun, ne stampò fortunatamente una copia extra e la consegnò a Sam Phillips, un ex dj specializzato in ingegneria del suono che solo pochi anni prima aveva avuto la folle idea di trasformare un anonimo magazzino nello studio di registrazione Memphis Recording Service e successivamente nell’etichetta discografica Sun Records. Con l’obiettivo di dare la caccia ai musicisti locali che suonavano il blues, la musica gospel o spiritual ma che non avevano un posto dove andare, e la convinzione che quel tipo di musica meritasse un pubblico più numeroso di quello tradizionale allora legato all’uomo di colore del mid South.
Incuriosito dalla singolare voce di quel ragazzo, Phillips lo richiamò l’anno successivo per un’audizione, mettendogli a fianco il contrabbassista William Black e il chitarrista Scotty Moore, due session men che già avevano lavorato con la Sun in passato. «La prima volta che l’ho ascoltato al microfono rimasi impressionato per la innata purezza della sua voce», ha sempre sostenuto Phillips, che in Elvis Presley non trovò tanto l’uomo bianco che cantava come i neri, secondo una espressione molto in voga all’epoca, ma l’artista in grado di trasmettere il sentimento della black music ai ragazzi bianchi ancora rinchiusi nella campana di vetro dell’intolleranza razziale. Da quelle lunghe giornate di sessioni all’interno della casa discografica venne registrata, il 5 luglio del 1954, esattamente sessant’anni fa, una cover di That’s All Right, un brano blues di Arthur Big Boy Crudup riadattato in una forma ibrida che teneva insieme blues, country, jazz e gospel, e che divenne la prima hit del cantante di Tupelo. La prima della più straordinaria carriera di un artista musicale idolatrato dalle ragazzine di mezzo mondo allo stesso modo di come era detestato dai loro genitori, che intravedevano nel successo di questo stravagante personaggio il sintomo più eclatante di un imminente declino della cultura americana. Il rock’n roll aveva trovato il suo messia.
Il resto è storia. Sessant’anni dopo quella registrazione gli studi della Sun, dove un tizio chiamato Bob Dylan si inginocchiò per baciare il pavimento durante una visita, sono meta di un pellegrinaggio continuo di generazioni di fan che prima di recarsi a Graceland, la mecca santa del rock’n’roll e il luogo più visitato di tutta l’America dopo la Casa Bianca, si avventurano fin lì solo per farsi immortalare nella sala prove con uno dei microfoni originali usati all’epoca da Elvis. La scrivania di Marion Kessler, un tempo anello di congiunzione tra la strada e la gloria, è ancora al suo posto, con tanto di telefono e targa con nome, a imperitura memoria. Eppure, ironia della sorte, nonostante le 30 mila copie vendute con il primo disco dopo appena pochi mesi, Presley rimase un fenomeno regionale fino al suo passaggio l’anno successivo alla Rca Record, che si garantì l’astro nascente del rock’n roll pagando a Sam Phillips 35mila dollari, più 5 mila dollari di royalties al cantante.
«Me lo hanno chiesto migliaia di volte e la risposta è sempre stata la stessa. No, non ho mai avuto rimpianti», ha detto una volta Phillips al critico musicale Robert Palmer, commentando l’ascesa dell’interprete di Heartbreak Hotel. Phillips all’epoca aveva bisogno di soldi per difendersi da un’accusa di violazione di copyright; inoltre la Sun era ancora un piccolo studio dove lavoravano due sole persone e dunque non in grado di reggere gli sforzi economici necessari per promuovere in maniera convincente la carriera di un promettente cantante come Elvis Presley. Ma il suo breve passaggio alla Sun rappresentò un punto di non ritorno per quanto riguarda le future scelte musicali. Come ha scritto Nick Tosches in Hellfire, la biografia su Jerry Lee Lewis, «arrivò Elvis e la Sun non fu più un’etichetta blues ma la principale casa discografica del rock’n’roll bianco».
Nella seconda metà degli anni Cinquanta vennero messi sotto contratto artisti come Carl Perkins, l’autore di Blue Suede Shoes, e Roy Orbison. Jerry Lee Lewis bussò al 716 di Union Avenue che aveva solo ventun’anni ma già un matrimonio rovinato, un po’ di prigione alle spalle e un’ombra di follia negli occhi, sufficiente da metterlo nelle condizioni di comporre Great Balls of Fire; Johnny Cash, invece, entrò per la prima volta alla Sun con la sua voce aspra e le sue canzoni religiose e ne uscì con il più innovativo sound country dai tempi della morte di Hank Williams e canzoni come Cry Cry Cry e Walk the Line.
La Sun Records cominciò il suo declino a partire dai primi anni Sessanta, ma il sogno di Sam Phillips, che da ragazzo avrebbe voluto fare l’avvocato per difendere gli oppressi del mondo, non si poteva più fermare: la rivoluzione musicale che avrebbe cambiato la faccia della cultura popolare americana, e non solo, aveva oramai intrapreso la sua strada.