Gabriele Romagnoli, la Repubblica 7/7/2014, 7 luglio 2014
SALVADOR
IN UN
minuto che non dovrebbe esistere accade una cosa che non dovrebbe succedere e cambia i destini di un allenatore, due portieri, quarantasei calciatori, 51.179 spettatori e ventidue milioni di esseri umani, quanti sono, all’ingrosso, gli abitanti di Olanda e Costarica. Nel recupero del recupero del recupero, al minuto 16 del secondo tempo supplementare, l’allenatore Van Gaal, ribattezzato da Robben per la sua fortuna nelle scelte “l’uomo dal cazzo d’oro”, si esibisce nuovamente nel suo numero preferito: la sostituzione. Del portiere, stavolta. Mai successo a questi livelli. È come se, dopo aver attraversato l’America coast to coast, uno si fermasse a 10 chilometri dal traguardo e cambiasse una gomma che non dava problemi montando il famigerato ruotino di scorta.
IL GESTO
In realtà è un colpo, un delitto premeditato, l’omicidio morale del Costarica che ha un mandante (Louis Van Gaal) e un esecutore (Tim Krul). Il primo, pervaso dalla lucida follia degli uomini liberi spesso detti artisti. Il secondo, mosso dal brivido dell’ignoto e dal telecomando in
panchina.
Il gesto è tanto memorabile quanto inavvertibile. Rischia perfino di non succedere perché, per quanto Van Gaal lo abbia in mente, ha aspettato tanto che, se la palla non fosse uscita, sarebbe rimasto un’intenzione. Invece accade, nella bolgia che prelude al finalissimo. Il pubblico, in piedi e già proteso a quel che verrà, non capisce. La tribuna stampa, occhi sulle tastiere a pestare il corpo di pezzo in attesa di quella fine che ne sarà l’inizio, non vede. Rialza lo sguardo e qualcosa non quadra: il portiere olandese è d’improvviso
alto e meno biondo. Ma è quello di prima? No, ha il 23 sulla schiena. L’ha cambiato. Dio, Van Gaal. In Olanda saranno sinonimi, lì è una bestemmia.
Corrono le informazioni. Lo fece già Jaconi con il Castel di Sangro. Sì, mica si giocava la coppa del mondo. Ha messo dentro uno specialista. Di che? Ne ha presi 2 su 20, quindi qui ne para mezzo. Guarda come è nero Cillessen, dopo essere uscito. Lui però non ne ha mai parato uno. Due campioni di ciapanò. E allora perché? Ma soprattutto: chi è
Tim Krul?
IL PORTIERE CHE NON C’ERA
Ventisei anni, nato a L’Aja dove per non morire di noja fanno giustizia per tutto il mondo. Emigrato in Inghilterra ancora minorenne, acquistato dal Newcastle. Con assoluto candore dichiarerà in un’intervista che la sua serie tv preferita si intitola “Un idiota all’estero”. Aggiungerà che a scuola non era molto bravo, quindi ha lasciato volentieri per il calcio, anche se prima di diventare titolare ci volessero anni (e ce ne vorranno). Nell’attesa siede in panchina o addirittura in tribuna, dove gli piace mescolarsi tra i tifosi, che non lo riconoscono. Partecipa a un torneo giovanile, esordisce a Palermo, dove dà buona prova di sé. Poi si infortuna. Nei primi cinque anni inglesi gioca dieci partite. Dichiara: «So aspettare ». Se necessario, si vedrà, anche fino alla fine della fine. E oltre. Ha per idolo Van der Sar, con il quale, nel corso di una trasferta, poté conversare per ven-
ti minuti e ne trasse un consiglio fondamentale: «Porta pazienza ». Gli bruciasse la casa salverebbe il gatto Thomas. Non ha menzionato la fidanzata Claire, che dovrebbe cavarsela da sola. In Premier ha alti e bassi. Resta negli annali per un autogol di nuca e il conseguente titolo: “Life is so Krul” (gioco di parole con “Life is so cruel”, la vita è così crudele). Non si abbatte. Porta pazienza e continua ad aspettare l’agguato del destino. Convocato in Nazionale, coglie un indizio esordendo contro il Brasile (0 a 0). Era nella porta olandese anche il 6 febbraio 2013 in amichevole con l’Italia, quando Van Gaal provò
molte riserve. La “Gazzetta” gli diede un 6,5 in pagella per un salvataggio su Gilardino al 90’ («dopo che aveva fruito del sussidio di disoccupazione»). Prima di allora aveva incrociato un italiano proprio dal rigore: Mario Balotelli, edizione Manchester City, ai tempi dell’infallibilità dal dischetto. Avevano recitato secondo copione: Krul gli aveva detto qualcosa per innervosirlo, quello aveva rallentato la rincorsa e l’aveva spiazzato. Poi deriso. Ognuno ha la sua tattica. Quella di Krul non aveva fin qui fruttato molto. Quando va tra i pali ha però una specie di nuova fiducia. Gliel’ha data Van Gaal.
L’ALLENATORE ONNIPOTENTE
Niente succede per caso se credete nella provvidenza. O in Van Gaal. Tutte le mosse discusse e discutibili che ha fatto fin qui erano figlie di una logica e, pur nel regno del caso, hanno pagato. Il Cile battuto con reti di due nuovi entrati (Fer e Depay)? «Ho notato che loro tendevano a cedere nell’ultimo quarto d’ora e ho inserito due forze fresche». Il Messico da un terminale rigore della riserva Huntelaar? «Van Persie non era lucido, l’ho sostituito». Il Costarica dalle parate del portiere che non c’era? «L’avevamo deciso insieme. Lui lo sapeva, il titolare no. Lui, io e nessun altro. A Cilpiù
lessen non abbiamo detto niente per non interferire con la sua concentrazione». Van Gaal può fare quel che vuole: schierare un’Olanda difensiva, trasformare Kuyt in un terzino, sostituire il cannoniere, inventarsi un pararigori anche se non lo era. Giochi di prestigio. Licenze poetiche. Lo criticano gli esteti, lo massacra Cruijff. Rievocano il fantasma di un’Olanda “totale” scomparsa da decenni. Van Gaal è qui per vincere. Ha solo tre campioni e non sempre tutti e tre funzionano. Il resto se lo deve inventare e lo fa. Ha il controllo assoluto perché, a differenza di Prandelli per esempio, invece del rinnovo prima del
mondiale ha firmato per un club, il Manchester United. Non deve tener conto dei senatori, né di qualche giovane bizzoso. Se ne frega di quel che dicono i commentatori, delle recensioni, dei premi. Ha fatto qualche compromesso con se stesso, non ne fa più con nessun altro. La squadra lo sa. Lo teme, ma lo segue. Ha il dono degli uomini che vivono come non ci fosse domani, perché domani non ha. Quel dono si chiama libertà: di scegliere, di sbagliare, più spesso di azzeccare. Krul non è uno specialista, ha solo la sfrontatezza di provocare l’avversario, parlandogli mentre va sul dischetto, agitandosi sulla linea di porta. Nessuno
dei costaricani aveva in tasca il suo curriculum vitae. Hanno visto arrivare uno nuovo, hanno pensato: l’ha messo perché questo è un fenomeno sui rigori. Ci ha creduto perfino Krul, passato da una performance mediocre del 10% di parati a un record del 40%. Ci hanno creduto tutti perché Van Gaal gliel’ha fatto credere. Nessun profeta ha mai mostrato il paradiso, i più seguiti sono semplicemente quelli che hanno saputo evocarlo meglio: musiche celestiali, settantadue vergini, la coppa del mondo. Quattro anni fa, dopo la finale persa, Van Gaal criticò il suo collega: «Non è così che dovrebbe giocare l’Olanda». Non è che
questa, a parte il secondo tempo del debutto con la Spagna, abbia fatto vedere di meglio, ma ce lo fa pensare, perché lascia tracce nella memoria, allude al soprannaturale: il volo d’angelo di Van Persie, il tuffo nell’eternità di Robben, l’apparizione di Krul.
Nel momento supremo in cui si celebrava il mistero dei rigori, costaricani e olandesi sono nel cerchio di centrocampo. I primi in ginocchio, pregano. I secondi, in piedi, osservano. Gli uni credono nella provvidenza. Gli altri in Van Gaal. In questa vita, è finita
come sapete.