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 2014  luglio 05 Sabato calendario

QUELLA CORSA AL GIACIMENTO TRA EX MINISTRI E MEDIATORI


È una bega da un miliardo di dollari, la cifra pagata dall’Eni per un giacimento di greggio in Nigeria che formalmente è andata al Governo di Abuja ma in realtà è stata dirottata sui conti di una società dello stesso Ministro del petrolio che aveva assegnato la concessione iniziale. Una vicenda che oggi, 15 anni dopo, ha spinto la Procura di Milano a mettere sotto inchiesta l’Eni e almeno un suo dirigente. Il gruppo italiano respinge i sospetti e ribadisce la totale correttezza del proprio operato: «Mai usati mediatori nelle nostre operazioni».
Tutto risale all’era di Scaroni, ma il problema sta esplodendo ora. Nell’era di Descalzi. E coinvolge Roberto Casula, appena promosso a capo di una delle quattro unità di business create con la nuova gestione, quella di Impiantistica, piattaforme e sviluppo.
A Il Sole 24 Ore risulta infatti che Casula sarebbe iscritto nel registro degli indagati dalla Procura di Milano, la stessa che mercoledì scorso ha comunicato alla stessa Eni che è indagata per corruzione internazionale (come anticipato ieri da Il Fatto Quotidiano).
La vicenda riguarda l’acquisizione di un campo petrolifero offshore in Nigeria, l’Opl-245, di cui Il Sole 24 Ore aveva scritto quasi due anni fa e per il quale l’Eni ha pagato oltre un miliardo di dollari destinato a una società controllata da un nigeriano, Dan Etete, che in veste di Ministro del petrolio si era auto-assegnato la concessione petrolifera.
Casula era chairman della Nae, la controllata nigeriana dell’Eni, e per questo sarebbe ora indagato.
Che fosse una vicenda in odore di corruzione, nel settore petrolifero lo si sospetta da quando Etete rilasciato la licenza di esplorazione, nel 1998. E dal maggio del 2013 c’è una onlus internazionale, Global Witness, che lo denuncia nel corso delle assemblee ordinarie degli azionisti dell’Eni. Da allora sia l’Ad dell’epoca Paolo Scaroni sia l’attuale vicepresidente responsabile per gli Affari legali Massimo Mantovani dicono che l’Eni non si è avvalsa di alcun intermediario e ha sempre negoziato direttamente con il Governo della Nigeria. L’aprile scorso in un’audizione al Senato, Scaroni ha dichiarato: «Non una lira è stata data a nessuno… Come facciamo sempre. Noi trattiamo solo con i governi. Niente intermediazione». E Mantovani ha ribadito: «Non abbiamo utilizzato alcun tipo di intermediario. Abbiamo fatto unicamente delle transazioni con lo Stato nigeriano. … I pagamenti sono andati - ci siamo assicurati - in un conto del Tesoro della Nigeria».
Anche ieri, a Il Sole 24 Ore, Eni ha confermato «la totale correttezza del proprio operato nella transazione in questione e assicurerà alla magistratura italiana la massima collaborazione».
Ma documenti, intercettazioni, email, sms e testimonianze raccolte dal nostro giornale - oltre che una sentenza di un tribunale civile di Londra - indicano che un’intermediazione c’è stata, e che non ha interessato solo un "broker" nigeriano di nome Emeka Obi, ma anche due italiani. Ci riferiamo a Gianluca Di Nardo e Luigi Bisignani, il primo con una storia di insider trading in America e il secondo che ha patteggiato in Italia una condanna per la vicenda P4. La cosa ancor più significativa è che, nel corso di oltre un anno di trattativa per l’acquisizione dell’Opl-245, con l’obiettivo di strappare una commissione ultramilionaria i due hanno attivato il vertice dell’Eni.
Intercettazioni fatte casualmente nell’ambito della cosiddetta inchiesta P-4, in un contesto completamente scollegato da quello di interesse per i magistrati napoletani, documentano che Bisignani aveva chiesto al suo amico Scaroni di aprire le porte dell’Eni al duo Obi-Di Nardo e l’Ad dell’Eni aveva assegnato al suo braccio destro operativo Claudio Descalzi il compito di occuparsene.
Ecco come Di Nardo spiega la cosa nella sua deposizione: «Seppi che un mio contatto africano, Dan Etete, già Ministro del petrolio in Nigeria, voleva cedere una concessione petrolifera… e mi rivolsi al Bisignani perché era noto che era legato ai vertici dell’Eni». Bisignani ha poi confermato: «In buona sostanza il Di Nardo mi chiese se potevo intercedere e parlarne con Scaroni. E Scaroni mi disse di andare… da Descalzi… Il Di Nardo avrebbe lucrato una mediazione se l’affare fosse andato in porto e anche io sicuramente avrei avuto la mia parte». La conferma è venuta anche da Scaroni: «Io presentai il Bisignani al Descalzi che è il responsabile del settore Oil, il soggetto Eni che doveva occuparsi della vicenda. Ma tale trattativa non è andata a buon fine». A sottolineare che l’intermediazione non aveva dato risultati era stato anche Bisignani: «La cosa si è poi arenata».
Lo ripete l’Eni anche oggi: «Le negoziazioni dirette con Malabu, che avvennero anche con contatti tramite consulenti e un agente, non andranno a buon fine». Ma la realtà è che Malabu ha indirettamente ricevuto un pagamento di un miliardo e 92 milioni di dollari. E poche settimane fa è stata costretta a pagarne 80 a Emeka Obi. Una parte di quegli 80 milioni, oggi parcheggiati in Svizzera, Obi ha poi ammesso essere destinata a Di Nardo. Di questo il nigeriano ha parlato nel corso di una causa contro Etete da lui intentata a Londra con il supporto finanziario del "partner" Di Nardo, perché Etete si era rifiutato di pagare l’intermediazione.
Per ricostruire la vicenda in dettaglio, è utile partire proprio dalla deposizione di Obi a Londra. In quella deposizione Obi spiega che l’intermediazione per l’Opl-245 aveva coinvolto anche Descalzi: «È stato cruciale per me essere in contatto diretto e frequente con i dirigenti dell’acquirente (l’Eni, Ndr) e mi sono spesso incontrato o ho parlato con il signor Casula, il signor Descalzi… Il rapporto tra me e il signor Descalzi è gradualmente diventato più stretto nel corso del negoziato. Ci incontravamo abbastanza frequentemente per colazione o per un drink la sera e una volta mi ha anche invitato a casa sua». A provare queste asserzioni sono decine di testi di sms e email tra i due depositati in tribunale.
Nella sua deposizione, Obi lascia intendere che è stata la stessa Eni a far sì che Obi-Di Nardo si inserissero tra il venditore-Malabu e il potenziale acquirente-Eni firmando un confidentiality agreement con Energy Venture Partners Ltd, Evp, la società di Obi, il 24 febbraio 2010. Con quell’accordo l’Eni si impegnava a «non contattare alcun dipendente o agente di Malabu senza il consenso di Evp».
A rendere quell’accordo anomalo erano alcune incertezze sul mandato di vendita. «Eni aveva richiesto come condizione per sedersi al tavolo negoziale che Evp le producesse evidenza del mandato di Malabu. Evp produsse evidenza di tale incarico e i negoziati iniziarono» sostiene oggi l’Eni. Ma in un documento riassuntivo chiamato "Processo di ingaggio sull’OPL 245" inviato il 4 marzo 2010 a Descalzi si legge che l’Eni aveva semplicemente «visionato fotocopia non integrale della lettera di incarico da Malabu, firmata da Dan Etete». Il problema aggiuntivo è che, formalmente, Etete non era il proprietario di Malabu, perché al fine di mascherare il fatto di aver dato una concessione a una società da lui stesso controllata quando era Ministro del petrolio, si era sempre servito di teste di legno. Etete risultava essere un semplice consulente di Malabu, ma a Il Sole 24 Ore non risulta che Eni abbia mai chiesto e visionato la procura dei proprietari formali che gli desse titolo per affidare a qualcun altro la cessione dell’unico bene della società.
Gli stessi documenti interni Eni dimostrano la consapevolezza che l’intera situazione fosse problematica. In una nota di due diligence del maggio 2010, alla voce «Descrizione dei particolari rischi emersi o individuati», si legge: «Il potenziale partner della Joint Venture… non risulta svolgere alcuna attività, non ha o ha scarso personale e il suo indirizzo commerciale è solo una casella postale". Questo su Malabu. Su Etete invece si sottolineava che «nel 1998, è stato condannato in un procedimento penale in Francia per riciclaggio di denaro».
"Eni ha svolto nella prima fase negoziale con Malabu una due diligence", spiega oggi la società. "Tale due diligence non forniva certezza circa la riconducibilità di Malanu a Etete come proprietario anche se evidenziava dubbi al riguardo. La necessità della due diligence fu sucessivamente superata dato che nessun accordo e’ stato sottoscritto con Malabu".
Secondo l’ufficio di assistenza legale anticorruzione dell’Eni queste criticità potevano comunque essere superate. Come si legge in una mail del 17 novembre 2010, "per l’ambito di nostra competenza non sussistono motivi ostativi all’acquisizione, assumendo che l’acquisto avvenga a un valore congruo e che vi sia un avallo governativo all’operazione".
Così a partire dal giorno successivo, il 18 novembre 2010, veniva avviato una trattativa a quattro tra Shell (che aveva già negoziato con Malabu l’acquisizione di una quota della concessione), Eni, Malabu e il ministro della giustizia, o Attorney general, nigeriano allo scopo di trovare una formula soddisfacente per tutti.
Alle 17 e 31 di quel giorno sappiamo dalle intercettazioni "napoletane" che Bisignani ha parlato con Descalzi, il quale gli ha detto: "Volevo dirti che adesso mi telefonano dalla Nigeria e che il Ministro e il presidente vogliono firmare tutto entro domani... ho mandato già un messaggio… a chi tu sai, perché non lo so dall’altra parte cosa stanno facendo. Se è rientrata la cosa, però volevo subito avvisare".
Bisignani ha risposto dicendo, "perfetto, così l’avverto". E poi ha subito chiamato Di Nardo al cellulare svizzero per avvertirlo.
Alla fine, secondo l’Eni "la trattativa diretta con Malabu si interruppe per vari motivi tra cui la difficoltà a chiudere la due diligence. Eni e Shell hanno poi negoziato e firmato accordi con il solo governo nigeriano che aveva interesse a far avviare un campo bloccato da diversi anni dai contenziosi".
Ma una mail inviata da Casula a Descalzi l’11 gennaio 2011 con oggetto "245-aggiornamento" offre una ricostruzione diversa: "Nel mese di Novembre, su intervento dell’Attorney General Dr. Bello si sono tenute numerose riunioni al Ministero di Grazia e Giustizia tra Shell, Malabu e Eni. A seguito di queste riunioni si è riusciti a concordare il prezzo della transazione e il draft di SPA (l’accordo Ndr) con Malabu. Il processo si è tuttavia bloccato per l’arrivo di un atto di comparizione davanti alla Corte Federale di Abuja nel quale un ex azionista di Malabu reclamava diritti sul 50% della società… (adesso Ndr) è sicuramente rischioso chiudere il deal con Malabu. Lo stesso Attorney General ha prospettato a Shell ed Eni la possibilità di ristrutturare la transazione attraverso il Federal Government che poi si farebbe garante sia del pagamento a Malabu sia farebbe da scudo (da chiarire come) a eventuali ulteriori claims dovessero sorgere sulle partecipazioni azionarie della società".
Insomma se l’iniziale trattativa con Malabu alla fine non si è conclusa e l’accordo finale è stato invece siglato con il governo nigeriano non sarebbe perché, come ha detto Scaroni, "l’Eni tratta solo con i governi", bensì perché il governo nigeriano doveva fare da "scudo". Ovviamente, le due versioni apparentemente in contraddizione dovranno essere verificate alla prova dei fatti.
Un dettaglio non insignificante è che l’ex azionista che aveva reclamato diritti su Malabu era il figlio del più grande cleptocrate della storia nigeriana, il generale Sabi Abacha, che era presidente quando Etete, da Ministro del petrolio, si era auto-assegnato la concessione Opl-245.
Ma fin quando non è emerso il claim di Abacha Junior, dirigenti Eni avevano dato prova di essere pronti sia a pagare Malabu sia a negoziare con l’intermediario Obi nonostante le criticità rilevate. Per esempio, quando un funzionario aveva fatto notare che la richiesta di Malabu di pagare su un conto "non necessariamente in Nigeria" cozzava con "il codice etico/mod 231", in base al quale "i pagamenti non potranno in alcun modo essere effettuati… in un Paese terzo diverso da quello delle parti", la responsabile per i contratti internazionali Donatella Renco aveva risposto che "i vincoli sul Paese di pagamento previsti dal codice etico sono nella sezione relativa a ’fornitori e collaboratori esterni e ai rapporti di appalto, di approvvigionamento’. Non penso un’acquisizione di asset rientri in questa categoria".
E quando la Renco aveva notato che una versione dell’accordo che si stava negoziando riportava che "al momento non c’è alcuna licenza di sfruttamento valida sul blocco 245", la dirigente aveva commentato: "Non vedo necessità di scrivere che non c’è licenza. Si può stare silenti. Cosi evitiamo di dover pensare a cosa sono i non meglio precisati interest che ci vengono venduti".
Alla fine però, per via anche della pretesa di Abacha Junior è stata trovata la quadra con un accordo che prevedeva il pagamento da parte dell’Eni di un miliardo e 92 milioni di dollari su un conto del governo nigeriano con il successivo trasferimento di quell’intera cifra su conti controllati da Malabu, come si attestato dalla mail dell’11 gennaio 2011. La Shell avrebbe invece pagato altri 200 milioni circa di costo della licenza al governo e i due colossi petroliferi si sarebbero spartiti il campo offshore.
E così è stato. La spartizione dei soldi pagati è invece altra cosa: Etete ha avuto il suo miliardo e Obi ha 80 milioni in Svizzera. E Di Nardo? Una fetta di quegli 80 milioni di intermediazione - che il tribunale londinese ha stabilito esserci stata e quindi dover essere pagata - se l’è sicuramente guadagnata. Svariate email depositate a Londra dimostrano infatti che è stato coinvolto da Obi in tutti i momenti-chiave della trattativa tramite messaggi inviati a e da un indirizzo in codice - foxfin. Che i due operassero in tandem lo dimostrano i testi di quei messaggi: "Ecco (in allegato Ndr) la strategia e i prossimi passi per il progetto petrolifero… Tutto sembra Ok, ma continuerò a fare pressioni su Eni perché ufficializzi l’impegno. Una volta che otterremo quell’impegno, potremo cercare altri investitori. In questo modo potremo creare pressione competitiva sul prezzo… Abbiamo investito molto tempo in questa transazione e spero che le cose andranno avanti", scrive Obi. E Di Nardo risponde: "Direi che la nostra partnership stia performando piuttosto bene. Sono sinceramente contento del progresso fatto in questi mesi… nel frattempo io mi occuperò del numero 3". Come ha spiegato Bisignani ai magistrati, "il numero 3 è tale Casula, e cioè il responsabile per la Nigeria dell’Eni". Per questo adesso la Procura di Milano lo ha iscritto nel registro degli indagati.
cgatti@ilsole24ore.us

Claudio Gatti, Il Sole 24 Ore 5/7/2014