Guido Salerno Aletta, MilanoFinanza 5/7/2014, 5 luglio 2014
IL DEBITO NASCE A BERLINO
La nuova emergenza globale è il debito accumulato dopo la crisi, giunto a livelli senza precedenti. L’economia reale di converso cresce troppo poco per sostenere adeguatamente questo enorme stock, tenendo conto che gli odierni tassi di interesse sono eccezionalmente bassi a fronte di volumi di debito così elevati e di livelli di rischio significativi. La situazione insomma è precaria. Nonostante gli investitori guardino con soddisfazione al consolidato rialzo dei corsi azionari dopo la crisi, i ministri delle Finanze tirano solo mezzo sospiro di sollievo per via della riduzione degli spread sulle loro emissioni: la bonaccia non è destinata a durare. I debiti sovrani europei non sono mai stati così alti e quello italiano ha raggiunto vette senza precedenti; la depressione causata dalle manovre fiscali ha abbattuto l’economia peggio di una guerra. La crescita economica è ora indispensabile per mantenere la fiducia dei mercati: se venisse meno, anche l’Italia sarebbe esposta a un nuovo vortice di instabilità globale. Che colpirebbe qualcuno ma travolgerebbe tutti.
Questo è il motivo per cui nel corso di appena un mese tutti i massimi vertici delle istituzioni bancarie e monetarie mondiali si sono occupati della stabilità dei debiti, pubblici e privati: dal governatore della Bce Mario Draghi al direttore generale della Bri Jaime Caruana, dal Fondo Monetario Internazionale al commissario Ue uscente Michel Barnier. Claudio Borio, infine, capo del dipartimento monetario ed economico della Bri, ha affrontato in modo globale le relazioni tra sistema finanziario ed economia reale con un intervento dal titolo eloquente «Ciclo finanziario, trappola del debito e stagnazione secolare»: i cicli finanziari potrebbero tornare nuovamente a collidere con quelli dell’economia reale. Il debito, non solo in Europa, fa paura. C’è dunque un unico, lunghissimo baco che sta condizionando il sistema finanziario globale, rendendolo intrinsecamente fragile: i creditori, coloro che oggi tanto mugugnano per i tassi irrisori incassati sui titoli pubblici, potrebbero trovarsi presto di fronte a un bel po’ di richieste di ristrutturazione se non a dichiarazioni di default di debiti sovrani. Anche i debiti privati destano allarme: sia quelli contratti in passato dalle imprese, che ancora fronteggiano una domanda interna carente costringendo le banche ad accumulare nuove sofferenze, sia quelli più recenti che hanno sfruttato le misure di accomodamento monetario delle banche centrali. È una dinamica perversa, tipo il paradosso di un medico che volesse curare un alcolista prescrivendogli di bere ancora di più. È esattamente ciò che temeva l’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti, quando ascoltava i colleghi chiedergli di finanziare nuova spesa pubblica in disavanzo per dare un colpo di frusta alla crescita economica. Le famiglie inglesi sono state indotte a indebitarsi approfittando delle misure di eccezionale favore adottate dalla Banca d’Inghilterra, il cui piano «Funding for lending» potrebbe aver determinato i presupposti per una nuova bolla immobiliare, non solo dei prezzi. Se i redditi delle famiglie inglesi dovessero registrare una flessione, ci potrebbe essere un nuovo quadro di insolvenze generalizzate.
La Bce ha fatto tesoro di questo infortunio vietando di utilizzare le T-Ltro per finanziare mutui. In Italia si sta cercando di coinvolgere assicurazioni e fondi pensione nel finanziamento delle imprese per alleggerire il carico che grava sulle banche: se per un verso si ripartisce in modo più ampio il rischio, per l’altro si rende più stretto il groviglio di relazioni che possono inghiottire tutti in un unico gorgo. Mentre nel primo decennio del secolo il finanziamento del debito transfrontaliero era considerato il motore della crescita, ora viene considerato il veicolo che mina la stabilità delle economie del globo. Non c’è più corrispondenza tra la formazione del risparmio interno a un Paese e l’espansione del credito e neppure tra andamento del debito e crescita economica. Il capitalismo ha cambiato fisionomia: non è trainato dai consumi e neppure dagli investimenti nell’economia reale, ma solo dal debito. I redditi da lavoro non crescono, spiazzati dalle imprese esposte alla competizione internazionale, mentre l’aumento della tassazione ha effetti depressivi non recuperabili. La prospettiva di una stagnazione secolare è fin troppo rosea. Ci sono rischi ben più gravi all’orizzonte, come ha ricordato Draghi. «In Europa la ripresa è debole, diseguale, ma soprattutto vulnerabile», ha dichiarato. «Possono verificarsi incidenti nell’economia globale che cambierebbero rapidamente la situazione. Inoltre la disoccupazione si sta stabilizzando ma è ancora molto alta. Già solo questo dramma pone un rischio alla ripresa perché riduce la domanda dei consumatori». Il combinarsi delle manovre fiscali e del credit crunch ha avuto come conseguenza una bassa inflazione che, secondo Draghi, «se durerà troppo a lungo, renderà più difficile il risanamento nei Paesi in crisi. dove i salari dovranno calare per migliorare la competitività».
Quest’ultimo è il punto da cui partire: si impongono riforme strutturali a senso unico, tagliando l’occupazione e i salari nei Paesi più deboli. Non serve alcuna flessibilità sul deficit: la ripresa della domanda può partire solo da chi oggi invece esporta deflazione e disoccupazione in Europa e nel mondo: la Germania. Chi ha aderito all’euro non può svalutare rispetto agli altri Paesi dell’Eurozona, ma è altrettanto vero che la Germania ha un attivo strutturale della bilancia dei pagamenti correnti infra-Ue da oltre un 15 anni, da quando l’euro è entrato in circolazione. Sta facendo gravare tutto il riequilibrio sulle spalle di chi, a causa di questo suo comportamento, cresce poco, ha i conti esteri in rosso e si indebita: ha la responsabilità politica, sociale, economica e finanziaria di sottrarre continuamente domanda al circuito del commercio levando linfa all’economia reale per trasferirla al settore finanziario. Ecco da dove viene l’accumulo degli attivi finanziari tedeschi all’estero e da dove viene l’eccesso di liquidità delle banche tedesche depositato presso la Bce. Non si tratta quindi di rivangare il fatto che nel lontano 2003 la Germania ha sforato il 3% nel rapporto deficit-pil.
Occorre piuttosto sottolineare come si stia ripetendo nei confronti dell’Europa meridionale, e soprattutto della Francia (che ha un disavanzo commerciale di 39 miliardi annui verso la Germania), lo stesso paradigma che adottato in occasione dell’unificazione monetaria dei Lander orientali, cui fu estesa la circolazione del marco occidentale con un rapporto 1 a 1. L’apparato industriale della Germania Est è stato distrutto a beneficio delle imprese della Germania Ovest e alle masse di disoccupati dei Lander orientali non è rimasto che accettare salari infimi. La Germania ha strumentalizzato la disoccupazione dell’Est per ridurre la quota dei salari sul reddito nazionale, aumentando così la sua competitività nei confronti dell’Europa. L’avanzo commerciale le ha consentito di aumentare gli investimenti di portafoglio all’estero, passati dai 791 miliardi di dollari del 2001 ai 2.760 miliardi del 2012. L’attivo della bilancia dei pagamenti correnti della Germania sarà quest’anno di 284 miliardi. È da qui che viene la deflazione in Europa: dalla sottrazione metodica e costante di risorse all’economia reale. Se fossero stati costantemente reimpiegati in nuova domanda e in investimenti, non ci sarebbe stato lo squilibrio strutturale che si è accumulato nell’Eurozona, divisa tra creditori strutturali e debitori senza rimedio, né ora ci sarebbe il clima di deflazione che ci avvelena lentamente. I guadagni di competitività che le riforme strutturali dovrebbero garantirci sono una chimera. Ecco perché a essere preoccupati ora non sono più solo i debitori.
Guido Salerno Aletta, MilanoFinanza 5/7/2014