Giuseppe Videtti, la Repubblica 5/7/2014, 5 luglio 2014
ELISA: “ECCO COME HO RAGGIUNTO IL SUCCESSO USANDO UNA LINGUA DIVERSA DALLA MIA”
In quella meravigliosa e temibile area segreta in cui fiorisce la vocazione degli adolescenti Elisa parlava un altro idioma. Era l’inglese la chiave d’accesso a un universo in cui miracolosamente nascevano le canzoni. «Per me era la lingua della musica che ascoltavo e avevo sempre ascoltato, quella di Jim Morrison e i Doors, quella che alimentava il mio immaginario, che mi trasportava lontano dal mio paese», spiega la cantante che ha esitato diciassette anni prima di pubblicare L’anima vola, un album interamente in italiano. Non l’ha fatto prima perché non se la sentiva, non riusciva a mettere in metrica le parole, sarebbe stata una forzatura che avrebbe ucciso l’ispirazione. Caterina Caselli, la sua discografica, dovette arrendersi di fronte alla testardaggine della quindicenne dalla voce prodigiosa, libera e audace come quelle di Dolores O’Riordan e Jeff Buckley. E i ragazzi che furono sedotti da Pipes & flowers , l’esordio ’97, non ne rimasero affatto sconcertati. Sembrò a tutti una scelta naturale. «Tranne ai critici, che continuarono a paragonarmi a questa e a quella, da Björk a Alanis Morissette – la parte più dolorosa della faccenda», protesta Elisa, che dopo il trionfo nei palasport la scorsa primavera riparte in tour il 15 luglio per approdare il 27 settembre all’Arena di Verona. «Tutta colpa dell’inglese». Nessuna scuola serale, nessun corso intensivo, nessun viaggio all’estero. I suoi insegnanti di lingua furono Otis Redding, Aretha Franklin, i Beatles, Madonna e Michael Jackson. Perfettamente autodidatta. «Mi sono aperta il cervello come un’anguria», racconta.
«Non c’era confine tra giochi, sogni e aspirazioni. Ogni cosa era legata alla musica. Ascoltavo e riascoltavo Jim Morrison che recitava le sue poesie, copiavo la sua cadenza, studiavo la fonetica. Il resto l’ho imparato vivendo in California con Ali, il mio ex fidanzato di origini iraniane che è stato il mio unico maestro e mi ha insegnato anche il farsi. Poi son tornata a vivere in Italia, e quando sono nati i bambini miei e di Andrea (Rigonat, chitarrista e attuale compagno di Elisa, ndr) abbiamo scelto di prendere una tata inglese, così i bambini imparano e io mi perfeziono».
Legittimo dunque il primo dubbio della Caselli: ma sarà un inglese maccheronico? «Fu il produttore Corrado Rustici, che viveva a San Francisco, ad assicurarle che la mia pronuncia era perfetta», racconta Elisa, 35 anni, 18 di carriera, oltre tre milioni di dischi venduti. «Il mio sogno era incidere in America, e boom, mi ritrovai a Berkeley, a due passi da dove avevano lavorato i Doors, che più di tutti hanno influenzato il mio modo di scrivere. Ero in estasi, in pellegrinaggio nei luoghi della beat generation e del flower power». Riflette: «Poi in realtà la mia popolarità è rimasta nei confini della penisola. L’unico exploit americano è stato Dancing, la canzone che nel 2006 fu scelta per So you think you can dance, un talent televisivo sul ballo, e entrò in classifica negli Usa». È sempre un’impresa imporre sul mercato anglosassone un artista italiano che non canti arie d’opera o standard napoletani, ma nel caso di Elisa un lavoro più mirato avrebbe prodotto dei risultati. Ma intorno a lei tutti erano convinti che se avesse cantato in italiano il mercato interno avrebbe reagito con maggiore entusiasmo. «Pressioni enormi», confessa l’artista, «e alla luce dei fatti anche insensate, perché i miei dischi di maggior successo – colpa certamente della crisi discografica che imperversa – restano ancora quelli in lingua inglese».
Quando nel 2001 vinse Sanremo con Luce ( Tramonti a nord est), prima sfida in lingua italiana, accettò il trofeo col pensiero fisso a Lotus, l’album che voleva a ogni costo e che sapeva più di Leonard Cohen e Velvet Underground che di melodie di casa nostra (a parte la versione di Almeno tu nell’universo di Mia Martini). Era ostaggio della lingua inglese, la sua comfort zone. «Un artista deve seguire il suo istinto, una regola che i talent spesso trascurano», dice. «Mi sento fortunatissima a essere nata prima di tutto questo, i talent sono una gabbia dorata, una bellissima opportunità, ma anche pericolosa; facilissimo perdersi e smarrire per strada il senso di quel che volevi dire, il messaggio, l’integrità e soprattutto se stessi. La fragilità è un dono dell’artista, invece a volte l’ipersensibilità viene minata in modo barbarico, spietato, in certe situazioni da talent».
L’anima vola, l’ottavo album, finalmente tutto in italiano – con collaborazioni eccellenti, da Ennio Morricone a Tiziano Ferro, da Giuliano Sangiorgi a Ligabue - è stato il frutto di un processo difficile e doloroso, ma alla fine anche liberatorio. «Sapevo di dover affrontare un mostro, era uno scoglio che guardavo in lontananza senza mai il coraggio di avvicinarlo », ammette. «Alla fine, però, è stato il lavoro più gratificante che ho fatto su me stessa e il regalo enorme è la risposta del pubblico (il singolo omonimo è doppio disco di platino). È stato Luciano (Ligabue), dopo aver ascoltato i primi provini, a incitarmi - io ero paralizzata dalla paura. Il resto è scaturito dalla lettura de Il buio, il fuoco, il desiderio – Ode in morte della musica ( Einaudi), il libro di Gino Castaldo. È stato un lungo lavoro alla ricerca di un’identità, per cercare di esprimermi in maniera naturale e mai forzata, un processo che ha richiesto tempo; una volta superato, scrivere è stato veloce e naturale. Mi sono tappata in uno studio a improvvisare, l’ho fatto per mesi: suonare e cantare senza freni e senza direzioni, solo per cercare di raggiungere uno stato più profondo e trovare un’espressione sincera in una lingua che musicalmente mi era sconosciuta - o forse chissà, non conoscevo me stessa. Ho scoperto la Elisa che canta in italiano attraverso i suoni, lasciando che suggerissero le note e subito dopo le parole. Da questo flusso, è nato L’anima vola».
Liberatasi dalla schiavitù della lingua inglese, Elisa è sembrata più disinvolta, leggera, libera. Ha trovato naturale persino duettare con i ragazzi dei talent («Avevo provato varie volte in precedenza, ed era stato sempre frustrante, magari anche squallido, un compitino fatto per esigenze di marketing, mi metteva in imbarazzo»). «Ho sentito il bisogno di comunicare molto di più e più profondamente. Questo è un album più empatico, nato da un lavoro che guarda verso l’esterno, ispirato dalla gente. Ha un’energia simile a Then comes the sun, ma con un effetto maggiore proprio perché in italiano». Poi ci ripensa e riflette: «Ma non credo che il prossimo album sarà tutto in italiano. L’avevo detto che questo sarebbe stato un disco speciale; non ho più quell’ostinato rifiuto per la mia lingua ma comporre in inglese è comunque più naturale. Ormai ho fatto amicizia con il mostro. Accettatemi per quella che sono. Un caso strano».
Giuseppe Videtti, la Repubblica 5/7/2014