Andrea Bonanni, la Repubblica 5/7/2014, 5 luglio 2014
IL POTERE TEMPORALE DEI BANCHIERI
L’Europa è dei cittadini e non delle banche: sembra un’ovvietà quella detta ieri da Renzi per rispondere alle indebite critiche della Bundesbank. Ma non lo è. Ed anzi coglie uno dei nodi cruciali della crisi in cui da anni ormai si trascina l’Unione europea. Un nodo non semplice da sciogliere perché tocca sia i poteri delle banche centrali, sia il loro mandato, e dunque il loro rapporto con la politica, ma soprattutto la funzione ideologica che la storia della costruzione europea ha loro impropriamente affidato. Il presidente della Bundesbank giovedì ha ironizzato sul discorso di Renzi al Parlamento europeo.
Non si può capire la sortita di Jens Weidmann, e si potrebbe essere erroneamente tentati di attribuirla ad un eccesso di presunzione, se si ignora la storia della creazione della moneta unica e il ruolo ideologico che le banche centrali vi hanno giocato. Il Trattato di Maastricht, che nel ‘92 metteva le basi per la nascita dell’euro, fu voluto da Kohl come una garanzia offerta all’Europa per rassicurarla dopo l’unificazione tedesca. Per arrivarci, il Cancelliere dovette imporsi in un epico scontro con il potentissimo presidente della Bundesbank, Karl-Otto Pohl, che infatti si dimise dopo undici anni di incontrastata gestione del marco quale moneta di riferimento europea. Ma la guerra non era finita. E nel ’97, quando si doveva decidere quali Paesi sarebbero entrati a far parte della moneta unica, un altro potentissimo presidente della Bundesbank, Hans Tietmeyer, riuscì ad imporre al governo tedesco di esigere il rispetto di una serie di rigorosissimi parametri economici come condizione per l’ingresso nell’euro. Nasce così il Patto di Stabilità, che ha ingessato come una camicia di forza l’Europa nella fase difficilissima della crisi economica. Esso è la creatura della Buba, che partecipò direttamente alla sua elaborazione e ai negoziati preparatori, molto più che della Cancelleria di Berlino. Senza il potere incontrastato che la banca centrale tedesca ancora esercitava sulle altre valute, tutte dipendenti dal marco, probabilmente la Germania non sarebbe riuscita ad imporlo al resto d’Europa.
Ma il Patto di Stabilità non ha avuto solo effetti tecnici e politici, in parte anche positivi perché ha costretto i governi ad una più sana gestione delle finanze pubbliche. Esso è diventato l’eredità morale, il lascito ideologico, la condizione politica che ha consentito alla Bundesbank di abbandonare il controllo della moneta. E, come sempre succede in questi casi, come accadde al Papato nella seconda metà dell’Ottocento, la perdita del potere temporale produce inevitabilmente un arroccamento ideologico e culturale. Non essendo più la padrona della moneta europea, la Bundesbank si è eretta a guardiano ideologico della sua “purezza”, a templare del Patto di Stabilità e della filosofia che lo sottende.
Questo ruolo negli anni è stato in qualche modo assecondato dal governo tedesco, un po’ per comodità, perché aveva interesse ad avere un “cane da guardia” di cui poteva a piacimento regolare il guinzaglio, e un po’ per soggezione culturale, dato che l’indipendenza della Banca Centrale e la sua totale autorità sulla moneta è stato il cardine su cui si è creata la Germania democratica del dopoguerra. La riprova è arrivata ieri nella dichiarazione della Cancelleria che, proprio per prender le distanze della sortita di Weidmann, si rifà al dogma dell’indipendenza della Banca, le cui posizioni «non riflettono quelle del governo».
Quando Renzi pone il problema di chi detiene il potere in Europa lancia dunque una sfida che non è solo politica ma anche e soprattutto ideologica. La fine del potere temporale della Buba e delle altre banche centrali nazionali non ha significato la fine del loro potere “spirituale”. Da questo punto di vista, la laicizzazione dell’Europa, la restituzione della titolarità dei valori fondativi dell’economia europea alla politica democratica, è un processo ancora da compiersi. Ma senza quel processo, che è culturale prima che politico, si rischia di perdere anni a disputarsi su qualche decimo di punto percentuale senza davvero “cambiare verso” all’economia europea.
E qui Renzi deve riflettere su un pericolo, tanto più insidioso perché si presenta sotto le spoglie di un’opportunità. Un pericolo che si chiama Angela Merkel. Da giorni il governo italiano va ripetendo, con ragione, di avere un ottimo rapporto e una intesa di ferro con la Cancelliera. È vero. Ma il problema è che Angela Merkel si prepara a fare con Renzi, e con le sue richieste di flessibilità, quello che ha fatto con Draghi e con la sua decisione di schierare la Bce in difesa dei Paesi indebitati: dare il via libera senza dirlo. A parole, la Cancelliera resterà sempre schierata per l’inviolabilità del “fiscal compact”, come era schierata contro l’acquisto di titoli di Stato da parte della Bce.
Nei fatti, poiché si rende conto che certi sviluppi sono giusti e necessari, lascia correre e benedice in segreto.
Tutto questo può andar bene per affrontare un’emergenza. Ma non rompe la sudditanza ideologica della Cancelleria alla Bundesbank e di molti governi europei alle loro banche centrali. Il premier italiano deve dunque affrontare un scelta difficile: approfittare dei margini che gli si offrono evitando lo scontro, oppure portare a Bruxelles la questione che ieri ha posto in conferenza stampa scoperchiando il vaso di Pandora sepolto nel cuore dell’Europa? Se riuscirà a imporre l’idea che realmente siano i cittadini a decidere le politiche economiche e non le banche centrali, avrà davvero “cambiato verso” all’Europa. Ma è una battaglia, questa, al cui cospetto le difficoltà che deve affrontare in Italia possono sembrare bagatelle.
Andrea Bonanni, la Repubblica 5/7/2014