Eugenio Scalfari, la Repubblica 6/7/2014, 6 luglio 2014
NON mi sembra che per il governo italiano le cose vadano così bene come ci si aspettava e come Renzi e la banda di musicanti che accompagnano il suo piffero ci avevano fatto intendere
NON mi sembra che per il governo italiano le cose vadano così bene come ci si aspettava e come Renzi e la banda di musicanti che accompagnano il suo piffero ci avevano fatto intendere. Non sembra a Bruxelles e neppure a Roma, tanto che lo stesso nostro presidente del Consiglio ha detto: «Attenzione. O le riforme andranno a buon fine nel tempo e nei modi giusti oppure io me ne andrò». Non è un bel modo di ragionare perché potrebbe darsi che sia la tempistica che le riforme volute da Renzi siano sbagliate e in quel caso sarebbe positivo avere qualcuno che le corregga nel modo più appropriato. Dopodiché Renzi può ringraziare e restare dov’è oppure ringraziare e andarsene; un sostituto si trova sempre e non è una catastrofe. Le riforme cui pensano sia Renzi sia Berlusconi sono due, tutt’e due in materia elettorale ed una di essa anche in materia costituzionale: quella del Senato e quella della Camera dei deputati. Nessuna delle due si occupa né di crescita economica né di sviluppo né di coesione territoriale, di investimenti, di occupazione giovanile e no, di equità sociale. Niente di simile. Per di più riguardano eventi che si produrranno alla fine della legislatura che avviene nell’aprile del 2018, cioè tra quattro anni. Perciò — questo è certo — gli italiani e gli europei se ne infischiano totalmente sia che si facciano sia che non si facciano. Le prossime elezioni europee ci saranno nel maggio del 2019, perciò campa cavallo che l’erba cresce. Ma interessano Renzi e i suoi musicanti, quelli sì. QUELLE riforme, imposte agli altri più che volute, sarebbero un segnale forte della autorevolezza di Renzi, di Delrio, della Serracchiani, della Boschi e quant’altri; un nuovo cerchio magico, il primo dei tempi repubblicani fu quello di Fanfani, poi di Andreotti, poi di Antonio Segni, di Craxi, di Cossiga, di Forlani, infine di Bossi e soprattutto di Berlusconi a cominciare da Dell’Utri e da Galan. Quando nasce un cerchio magico in un partito, il partito muore oppure si esprime. Bisogna che gli italiani lo capiscano ma non mi pare cosa molto facile. * * * La vera riforma della Camera sarebbe quella del collegio uninominale con un’unica soglia del 3-4 per cento e un premio riservato al ballottaggio tra i primi due o tre. È un sistema maggioritario che tutela al tempo stesso i due principi — che attualmente sembrano un ideale irraggiungibile — e che furono gli obiettivi costanti di Veltroni e di Bersani. C’è, con varie e modeste varianze, in Gran Bretagna, in Francia, in Spagna, in Olanda, in Grecia, e porta con sé il Cancellierato. Ma porta anche qualcosa di più: il rafforzamento insieme del potere esecutivo e di quello legislativo. L’uno è più forte nelle decisioni che deve prendere con chiarezza e con la rapidità richiesta dalla società globale in cui viviamo. L’altro grazie al legame con gli elettori: diminuisce senza tuttavia annullarsi l’appartenenza al partito di origine e giustifica pienamente l’articolo costituzionale sulla libertà da vincolo di mandato. Non si capisce il motivo per cui, avendo quattro anni davanti a sé un seme così ragionevole e così diffuso che contiene alla perfezione i principi di governabilità e della rappresentanza non venga realizzato. Capisco che significa la fine dei cerchi magici, ma vi sembra un risultato da poco? La riforma del Senato è motivata sempre da una serie di dati che abbiamo già dimostrato come completamente sbagliati utilizzando fonti di prima mano. Come è stato documentato la settimana scorsa, i decreti attuativi delle leggi definitivamente approvate, a partire dal governo Monti, tuttora giacenti sono ben 511. Un numero abnorme: tutto questo dipende non già dal balletto (cosiddetto) tra Camera e Senato bensì dalla burocrazia ministeriale che dovrebbe approntarli. Non lo fa, non si sa per quali ragioni e questo è il punto che bisognerebbe appurare per renderli immediatamente esecutivi e punire o addirittura rimuovere dai loro luoghi i responsabili. Il Senato, secondo i dati da noi pubblicati di prima mano, approva le leggi ordinarie in meno di due mesi, le leggi di conversione dei decreti in cinquantadue giorni, le leggi finanziarie in meno di tre mesi. Vi sembra questo un motivo sufficiente per l’abolizione di uno dei due rami del Parlamento? Il Senato può benissimo esser privato del voto di fiducia e delle leggi di bilancio ad esso connesse. Queste è opportuno riservarle alla sola Camera dei deputati ed avviene in molti dei paesi sopra indicati. Tuttavia i soli poteri restano invariati su tutto il resto e in particolare sul controllo concernente la esecutività delle leggi in questione. Non dovrebbe mai più ripetersi la situazione che stiamo vivendo adesso, con 501 leggi giacenti perché i Direttori ministeriali o i loro collaboratori non fanno il dover loro. Resta il tema del Senato elettivo in primo o in secondo grado. A mio avviso non sembra così fondamentale. Primo o secondo grado importano poco purché i poteri conferiti a quel ramo del Parlamento — salvo quelli della fiducia e delle leggi di bilancio ad essa connesse — siano invariati. Invariato in particolare ed anzi possibilmente rafforzato — il potere di controllo non sulla legalità, che spetta com’è noto alla giurisdizione della magistratura inquirente e requirente — bensì sul controllo dell’efficienza, della giusta scelta degli obiettivi, e della rapidità. Questo controllo, condiviso ovviamente tra i due rami del Parlamento, può essere esercitato con maggiore efficacia dal Senato proprio per la ragione che esso non è coinvolto con la fiducia accordata dalla Camera al governo in carica e quindi può controllarne l’operato senza necessariamente metterne in discussione l’esistenza. * * * Resta il tema dell’Europa. In quello Matteo è bravissimo, personalmente confido che risolverà ogni cosa nel modo migliore rispetto agli obiettivi da ottenere. Il problema non è tanto quello degli impegni con l’Europa: è pacifico che dovremo rispettarli e lo faremo. Il problema è quello dei tempi. La Germania vuole che la flessibilità non vada oltre il 2015 il che significa che la seminagione dovrebbe avvenire con la legge di stabilità all’esame del Parlamento nell’autunno del 2014. Il significato di questa tempistica è pessimo e pessimo è l’effetto che inevitabilmente avrebbe non solo e non tanto sui mercati quanto sulle istituzioni coinvolte e sui loro movimenti di capitale. Il vero obiettivo da realizzare sarebbe se la Germania accettasse la flessibilità fino al 2016 o meglio ancora al 2017. È un compito che coinvolge in gran parte (e per nostra fortuna) le operazioni che Mario Draghi sta effettuando non certo nell’interesse italiano ma in quello europeo. Renzi secondo me è capace di utilizzare quell’appoggio e soprattutto di esercitare le pressioni dovute su Angela Merkel e sui suoi alleati i quali, del resto, di agevolazioni di questo genere hanno già in passato più e più volte usufruito. Se queste cose le dico io, che non sono certo un membro del cerchio magico di nessun partito e meno che mai di quello renzista, qualche significato forse l’avrà. Io ci credo e penso che possa realizzarsi. Good night and good luck.