VARIE 4/7/2014, 4 luglio 2014
APPUNTI PER GAZZETTA - LA POLEMICA TRA GERMANIA E ITALIA
ROMA - Nessuna divergenza fra Italia e Germania su rigore e crescita nella Ue. Dopo lo scontro fra il governo italiano e i falchi tedeschi ieri, il premier Matteo Renzi, il ministro degli Esteri italiano Federica Mogherini e quello dell’Economia Carlo Padoan intervengono per allentare la tensione. Renzi, incontrando il presidente della commissione Ue, Josè Manuel Barroso, ricorda che "non c’è nessuna polemica con governo tedesco su stabilità e flessibilità" e definisce "ottimo" il suo rapporto con la cancelliera Angela Merkel. Poi lancia un messaggio diretto al presidente della Bundesbank, che ieri lo aveva criticato: "Non ho sentito polemiche da esponenti politici. Se poi parliamo di quanto detto da qualche banchiere, rispondo che la Bundesbank deve perseguire il suo obiettivo statutario, non entrare nel dibattito politico". E dice: "L’Europa è dei cittadini europei, non dei banchieri".
Merkel: "Bundesbank organismo indipendente". Su questo punto, poco prima, era intervenuta anche la cancelliera Angela Merkel, tramite un portavoce, ricordando che la Bundesbank "è un organismo indipendente" e aggiungendo che fra i due paesi "non ci sono divergenze di opinioni sul patto di stabilità e crescita". La prima a intervenire su quella che sembrava una crisi fra Roma e Berlino, è stata questa mattina la titolare della Farnesina. "Non c’è una crisi diplomatica" con la Germania, ma una "discussione politica", anche con altri Paesi, su come "interpretare il patto di stabilità", ha detto, intervistata da Radio Capital. . L’Italia secondo il ministro "sta esercitando un peso europeo nuovo". L’importante è avere un "filo diretto" con Berlino.
RADIO CAPITAL L’intervista al ministro Mogherini di JEAN PAUL BELLOTTO e RICCARDO QUADRANO
Mogherini: "Filo diretto tra Renzi e Merkel". "C’è un filo diretto tra Italia e Germania, tra me ed il ministro degli Esteri Steinmeier e tra Matteo e Angela Merkel. Bisogna uscire dall’idea di un’Italia e dei Paesi del sud Europa contro quelli del Nord perchè abbiamo obiettivi comuni", ha spiegato la titolare della Farnesina. Per la Mogherini "si tratta di capire come condividere questa volontà e trovare strumenti concreti per uscire dalla crisi e rilanciare l’economia europea".
Padoan: "Nessun problema". In mattinata sulla questione era intervenuto con toni tranquillizzanti anche il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan. "Non c’è nessun problema con la Germania. Ieri ho avuto un lungo colloquio con il mio amico Schaeuble. Non c’è nessun problema - ha detto Padoan - . Nei prossimi mesi possiamo fruttuosamente lavorare insieme agli altri Paesi membri dell’Europa per rimettere crescita e lavoro al centro dell’agenda economica".
RNews Fubini: "Compromesso per evitare paralisi"
Dichiarazioni quelle degli esponenti del governo che gettano acqua sul fuoco dopo le tensioni fra Italia e Germania. Ieri il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, era intervenuto così: "Renzi ora ci dice cosa fare" ma "fare più debiti non è il presupposto della crescita". Sulla stessa linea il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schaeuble: "Rifiuto il tema della flessibilità. Abbiamo bisogno di crescita questo sì, e di investimenti". Secca la replica di Palazzo Chigi: "Se la Bundesbank pensa di farci paura forse ha sbagliato Paese. Sicuramente ha sbagliato governo". Discussioni, che hanno fatto temere un inasprimento dei rapporti diplomatici, ma che oggi sembrano superate.
PEZZI DI REPUBBLICA
BERLINO .
«Renzi afferma che l’Europa ha il volto della noia, e poi ci dice che cosa dovremmo fare. Io gli rispondo che fare più debiti non è il presupposto della crescita, e che alle promesse devono seguire i fatti, le riforme vanno fatte e non solo annunciate ». Così il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, parlando ieri al Wirtschaftstag, il convegno economico europeo della Cdu di Angela Merkel, ha lanciato un durissimo attacco al discorso tenuto mercoledì all’Europarlamento a Strasburgo dal presidente del Consiglio.
Come a dire, parafrasando il titolo d’un episodio di “Guerre stellari”, che ‘l’Impero colpisce ancora.
«C’è da temere che i tassi bassi non vengano usati per fare le riforme, bensì per finanziare altre spese», ha incalzato il giovane, precisissimo e calmo capo dei Templari di Buba, come nel gergo delle banche centrali vengono definiti i leader della Bundesbank, sempre fedeli al loro motto storico, “Siamo arroganti perché siamo bravi”. «I bassi tassi d’interesse rinnovati nel lungo periodo allentano la pressione sui governi per procedere sulla strada delle riforme e del risanamento dei bilanci», ha continuato Weidmann. Ammonendo contro il rischio di “contraccolpi della crisi”, egli ha poi affermato che «è importante chiarire che l’Eurosistema non tarderà troppo nel tornare a una normalizzazione della politica monetaria per riguardo alle finanze degli Stati». In chiaro: non dobbiamo lasciare tassi bassi troppo a lungo. Linea dura made in Bundesbank, opposta a quella di Draghi. E Angela Merkel, ospite d’onore al Wirtschaftstag, ha scelto una prudente linea mediana: ha elogiato l’Irlanda, «che riforma senza chiedere più soldi europei e più spese», ha affermato che «più spese non sono la ricetta contro la disoccupazione », ma ha aggiunto che «noi tedeschi dobbiamo imparare a pensare più da europei e capire che ci va bene solo quando va bene anche a tutta l’Europa».
(a. t.)
MA IL PREMIER NON PERDE LA CALMA
MA IL
premier non perde la calma. «Bene bene, questo è un ottimo segnale, se pensano di farci paura lo vedranno, hanno sbagliato governo ». Però al secondo giorno consecutivo di attacchi tedeschi all’Italia - mercoledì era stato il capogruppo del Ppe a Strasburgo Manfred Weber - a Palazzo Chigi rifiutano di parlare di incidente tra Roma e Berlino. Già, perché la convinzione di Renzi e del suo
staff è che né Weidman, né Weber, né Schaeuble rappresentino la linea della Germania. «In Germania decide la Merkel e la linea della Cancelliera è un’altra». Il governo italiano non perde il sangue freddo nella battaglia per ottenere maggiore flessibilità sui conti in cambio di riforme.
D’altra parte, ricordano tutti come un mantra, «Roma non chiede di cambiare il Patto di stabilità, ma di interpretarlo in modo più elastico per far ripartire l’economia». Ma visto che la prudenza non è mai troppa, il governo prepara le contromisure per farsi valere in Europa e lo fa in collegamento
con gli uomini di peso del Pd all’Europarlamento. Già, perché il 15 luglio il popolare Jean Claude Juncker dovrà ottenere la fiducia di Strasburgo. E come dice Simona Bonafè il presidente in pectore della Commissione europea per passare «ci dovrà dare delle spiegazioni, ci dovrà dire come intende applicare la flessibilità già concordata ». Con il Partito democratico pronto a far saltare il patto con il Ppe con il quale governa il Parlamento di Strasburgo in Grande Coalizione. E nella battaglia europea Renzi e il Pd sanno di avere anche
la copertura del presidente Napolitano, che ieri ha ricordato come l’Italia «negli ultimi anni ha fatto molto, l’aggiustamento della finanza pubblica che c’è stato in Italia negli ultimi anni può sfidare qualsiasi termine di paragone ». E il Capo dello Stato ha ricordato che il risanamento dei conti deve essere combinato «all’imperioso obiettivo del rilancio della crescita».
Renzi sapeva che la vittoria ottenuta sette giorni fa a Bruxelles con l’approvazione da parte dei leader del documento sulla flessibilità sarebbe stata solo la prima battaglia per arrivare davvero a un Patto meno dogmatico, visto che il principio politico apbolezza
provato dai capi di Stato e di governo ora deve essere declinato in realtà principalmente dalla Commissione. E il premier per chiudere la partita conta sulla Cancelliera: «La Merkel ha interesse
ad avere un rapporto con Renzi — spiegano gli esperti di Europa del Pd — altrimenti l’Unione con chi la manda avanti?». Considerazione che sconta la dela
politica di Hollande e l’isolamento di Cameron. E c’è la convinzione che anche la donna più potente del mondo voglia sinceramente andare verso la flessibilità per aiutare la ripresa in tutto in Continente. E in queste ore ad ammorbidire Schaeuble ci pensa il ministro Padoan con telefonate assai frequenti. La situazione ricorda il 2012, quando i falchi guidati dalla Buba di Weidman e dal Finanzminister picchiavano contro lo scudo antispread chiesto da Monti per salvare la moneta unica: alla fine la Merkel sostenne l’Italia e nonostante le bordate lo scudo passò. L’ottimismo di Renzi sulla partita europea è anche dovuto dal fatto che la Germania non è un monolite, che anche a Berlino si fa politica e c’è chi si comporta duramente con i paesi del Sud Europa per lucrare voti. Per questo ieri non ci sono stati contatti chiarificatori tra Renzi e la Merkel dopo l’agguato di Weber al Parlamento europeo, visto che il quarantunenne capogruppo del Ppe milita tra le fila della Csu, alleato bavarese della Cdu della Cancelliera spesso su posizioni più intransigenti. «Anche da loro si fa politica», è la certezza del governo italiano. Così come si pensa ci sia anche una dose di gioco delle parti, con i falchi alla Schaeuble dentro alla Cdu che fanno i duri per tranquillizzare la base del partito e l’opinione pubblica sul fatto che la Germania non permetterà un allentamento delle regole di bilancio dell’eurozona. Salvo poi far passare in sordina le novità in Europa. Almeno questa è la scommessa italiana.
SCHMID
BERLINO .
«Pregiudizi no, diffidenza creata da Berlusconi, sì. Eppure i pragmatici Merkel e Renzi si possono intendere ben meglio che non Merkel e Hollande. Un asse Renzi-Hollande sarebbe fatale per Roma». Parla Thomas Schmid, ex direttore e ora columnist di Die Welt, ascoltatissimo in Cancelleria.
Il duello Renzi-Weber a Strasburgo conferma pregiudizi verso l’Italia?
«Non credo. C’è il timore che scelte e coalizioni (anche in Germania) possano riscrivere il Patto di stabilità, meno stabilità e più sostegni alla crescita. Ma non il timore che Renzi sia l’italiano voglioso di politiche spendaccione. I colloqui Merkel-Renzi hanno indicato convergenze, lei ha fatto concessioni, parlato più di crescita, auspicato che i paesi forti come la Germania facciano di più per l’Europa per empatia europea, per la crescita in paesi come l’Italia».
Secondo Renzi, senza la violazione dei criteri Schroeder non avrebbe potuto riformare la Germania, che ne dice?
«Non sono d’accordo. Violare i criteri allora fu un errore tedesco. Ben più importanti furono la determinazione di Schroeder a imporre riforme necessarie».
Gli anni di Berlusconi hanno sedimentato diffidenza?
«Questa sfiducia esiste. Nutrita dall’èra Berlusconi: aveva promesso riforme di fondo e non ha fatto nulla, anzi iperindebitando il futuro. Un parallelo Renzi-Berlusconi qui è inevitabile: Riecco uno che dice hoplà, eccomi, taglierò il nodo gordiano, so come si fanno le riforme. In Europa c’è una certa sfiducia: a parole seguiranno fatti».
Renzi visto dai tedeschi: uomo delle promesse o dei fatti?
«L’uomo delle proposte giuste e dei fatti non ancora realizzati. Ha individuato i problemi, sa parlare alla gente e decidere nelle istituzioni, ha un team di giovani, vediamo cosa farà. Siamo attenti, curiosi, non diffidenti ma non ancora convinti ».
Merkel nel Ppe, Renzi nel Pse dove c’è la Spd ma anche Hollande. Berlino teme un asse Renzi-Hollande per premere sul rigore tedesco?
«E’ il pericolo, ma credo che Renzi sia troppo intelligente per cadervi. Merkel fa politiche quasi socialdemocratiche. E l’asse Parigi-Berlino è morto. La France profonde rifiuta le riforme, gli italiani tra privatizzazioni, liberalizzazioni, sacrifici, hanno accettato molti sacrifici. E Renzi socialista riformista — Merkel apprezza ciò — ha fermato i populisti; a Parigi il primo partito è un partito fascista che potrebbe vincere le presidenziali e avere 300 atomiche in mano. Non a caso Merkel ostenta simpatia per Renzi politico del futuro, progressista pragmatico, cerca un asse con lui, e salvo pochi falchi Csu ha la maggioranza del suo centrodestra con lei. Non vede così Hollande. Tra un asse di sconfitti con Hollande spero che Renzi sceglierà Angie. Il Grande Malato oggi è la Francia, Angela e Matteo lo sanno».
LO SCONTRO A STRASBURGO
DAL NOSTRO INVIATO
STRASBURGO .
Matteo Renzi entra nell’aula di Strasburgo e prende posto al banco riservato alla presidenza dell’Unione. Martin Schulz lo introduce, il premier lo ringrazia: «Faccio a lei e a tutti gli eurodeputati un grande in bocca al lupo da parte del popolo italiano, avete la responsabilità di riportare fiducia e speranza nelle istituzioni europee ». L’emiciclo è quasi pieno, gli indipendentisti euoscettici dello Ukip piazzano tante piccole Union Jack sui propri banchi. Renzi più tardi gli riserverà una carezza: «Potete voltare le spalle all’inno, non ai problemi». A fianco del premier siede il ministro degli Esteri Federica Mogherini. Dietro, lo staff. Renzi spiega all’aula di non voler fare un discorso «di bullet point», di non volere elencare i punti del programma del semestre italiano: «Potrete leggere il documento con le nostre priorità». Annuncia quello «speech di visione» di cui parlavano alla vigilia i suoi. Va a braccio per 17 minuti, al contrario di quanto si era ripromesso, basandosi solo su un foglio di appunti. L’aula lo applaude una decina di volte, in modo fragoroso quando parla del compito dell’Europa nel mondo. Ma soprattutto ci sarà un durissimo scontro sulle politiche economiche con il Partito popolare europeo.
E infatti per raccontare quanto successo a Strasburgo bisogna capovolgere la giornata e partire dalla fine. Sono le sei del pomeriggio, tre ore dopo l’inizio della plenaria, e Renzi ha appena finito di replicare agli eurodeputati. Gli onorevoli italiani lo circondano per salutarlo e rivolto a loro il premier dice: «Sono
stato troppo duro? Ma al popolare non potevo non rispondere». Già, perché il nuovo capogruppo del Ppe, il bavarese Manfred Weber, prendendo la parola dopo il discorso di Renzi picchia durissimo, negando di fatto quella flessibilità sui conti che il premier italiano ha incassato la scorsa settimana al summit dei capi di Stato e di governo. Un principio politico che ora le istituzioni Ue dovranno tradurre in realtà ma che Weber stronca: «I nuovi debiti uccidono il futuro, non è che perché i mercati sono più stabili
dobbiamo essere flessibili. L’Italia ha un debito del 130% e volete soldi in cambio di riforme? E poi come facciamo ad essere sicuri che le fate? In questi anni abbiamo perso fiducia». Una bordata che fa il bis con le parole di fuoco pronunciate in mattinata all’Aja dal premier olandese Mark Rutte, secondo il quale al vertice di Bruxelles di venerdì scorso lui e la Merkel hanno «stoppato» il tentativo di Francia e Italia di ammorbidire le regole di bilancio.
Renzi nelle repliche risponde
duramente a Weber, ricorda che nel 2003 fu la Germania a sforare il 3% per fare le riforme mentre l’Italia chiede più elasticità, non di sfondare il tetto di Maastricht. E poi: «A Weber sfugge che parte dei deputati popolari (Ncd e Udc, ndr) appoggia il mio governo, dunque non so se ha parlato a nome del gruppo o a titolo personale. Se parlava invece a nome della Germania vorrei ricordargli che è stata Berlino a sforare per prima». E comunque, se voleva dare lezioni all’Italia, Weber «qui ha sbagliato posto».
Uno scontro che può mettere a rischio i rapporti tra Ppe e Pse che guidano le istituzioni Ue con una Grande Coalizione. Tanto che a caldo il capogruppo del Pse, Gianni Pittella, afferma che «senza la flessibilità sulle regole di bilancio sarà difficile l’accordo con il Ppe sulla fiducia del Parlamento a Juncker», presidente in pectore della Commissione. In serata Renzi parlando a Porta a Porta cerca di calmare le acque dicendo di non credere che la nomina del lussemburghese «verrà rimessa in discussione»,
anche se conferma di avere dato l’ok a Juncker solo perché c’era il documento approvato dai leader che lo «impegna» politicamente sulla flessibilità.
L’incidente con Weber rischia di offuscare una giornata che in realtà ha colori diversi. Il premier davanti ai 751 eurodeputati fa un discorso profondamente renziano: «Se oggi l’Europa si facesse un selfie nell’immagine vedrebbe il volto della stanchezza, della rassegnazione. Con estrema preoccupazione dico che l’Europa oggi mostrerebbe il volto della noia». Fa l’esempio di Italia e Grecia, paesi che ieri si sono passati il testimone della presidenza di turno dell’Unione. Spiega che parlando di Atene e Roma non si pensa al Partenone e al Colosseo, all’agorà e ai templi, ad Anchise ed Enea, «pensiamo invece alla crisi e allo spread». Per questo, scandisce Renzi, «la vera sfida è ritrovare l’anima dell’Europa, il senso più profondo dello stare insieme». Poi arriva la metafora omerica: Renzi («non ero maggiorenne quando c’è stata Maastricht») si definisce parte di «una generazione nuova, la generazione Telemaco», figlio sul quale grava una responsabilità maggiore rispetto a quella del padre Ulisse. Che riportata al presente è quella di «raccogliere l’eredità dei padri fondatori dell’Unione e assicurare un futuro a questa tradizione, rinnovandola giorno per giorno».
E l’eredita per Renzi si rinnova facendo svoltare l’Europa: «L’Italia non viene qui a chiedere, ma a dire che è la prima che ha voglia di cambiare e la crescita non la chiede un solo Paese, la chiede tutta Europa altrimenti non abbiamo futuro». Il premier ricorda che non chiede di cambiare le regole, ma di applicarle integralmente visto che il Patto si chiama «di stabilità ma anche di crescita». Dunque «non chiediamo scorciatoie, ma ci faremo sentire con tutta la forza di un grande paese». Perché «non siamo un puntino su Google Map, siamo una comunità» e vogliamo un’Europa più semplice, «una smart Europe». Un continente più leggero, più facile, come piace al premier britannico Cameron. Al quale tributa anche il riconoscimento che «un’Europa senza Londra sarebbe meno Europa». E Cameron, da Downing Street, gradisce.
CHI È WEBER
DAL NOSTRO INVIATO
STRASBURGO .
«I debiti uccidono il futuro e chiedere tempo per fare le riforme significa fare nuovi debiti». A Strasburgo Manfred Weber è l’uomo del giorno, è il nuovo capogruppo del Partito popolare europeo che in aula ha attaccato Renzi sulla flessibilità. Il quarantunenne Weber è un imprenditore bavarese rinomato per non prendere ordini dalla politica e fa parte della Csu, partito regionale federato con la Cdu della Cancelliera ma con posizioni più intransigenti. Weber parla seduto al bar del Parlamento europeo sorseggiando un caffè.
Renzi in aula ha messo in dubbio che lei abbia parlato a nome del gruppo
del Ppe.
«Mi scuso con Renzi, non ho potuto ascoltare la sua replica perché avevo un impegno inderogabile al gruppo. Detto questo, la frazione del Ppe ha deciso i contenuti dopo un attento esame delle linee politiche da prendere. E nella discussione sul Patto di stabilità la nostra linea - sostenuta anche da greci, spagnoli, irlandesi e portoghesi - è quella che ho espresso
in aula».
L’Italia non vuole cambiare il Patto, vuole che venga applicata la flessibilità presente nelle sue regole per chi fa le riforme.
«E’ importante che anche
Renzi e il Pse riconoscano che i testi vanno bene, ma bisogna dire che la flessibilità significa fare nuovi debiti e se cediamo a questo richiamo rischiamo di deragliare. La Francia ne è stato l’esempio perfetto, ha chiesto più tempo sul deficit ma ha fatto riforme deludenti. Per questo non ci fidiamo dei governi del Pse. Non vogliamo che si facciano nuovi debiti in cambio delle riforme. Però molti punti del programma di Renzi, come la crescita, il Mercato interno o il commercio estero, hanno l’appoggio del Ppe».
La scorsa settimana i leader hanno dato via libera a un documento che impegna la prossima Commissione sulla flessibilità. La sua posizione è in linea con quella di Angela Merkel?
«Per quello che so anche Angela Merkel dice che il Patto deve essere applicato così com’è».
Dunque non si rispecchia nel documento preparato da Herman Van Rompuy?
«Quel testo è una buona premessa per costruire un ponte tra noi e il Pse. Nelle prossime settimane ne parleremo con Juncker, discuteremo con lui su come si applica il Patto. Ma l’Italia ha il debito al 130% del Pil e tutti devono sapere che se arriva una nuova crisi i mercati vanno di nuovo nel caos».
L’Italia non vuole superare il 3%, chiede solo più margini di manovra su deficit e debito.
«Maastricht dice che il traguardo è lo 0% di deficit, il 3% è il tetto massimo. Per noi si tratta di riconoscere politicamente che i debiti distruggono il nostro futuro. Sulle riforme abbiamo bisogno di fatti, non di parole. Il governo italiano le faccia, poi parleremo di tutto il resto».
(a. d’a.)
LA STAMPA FRANCESCO MANACORDA
Più fiducia
per spingere
la Borsa
Francesco Manacorda
I tassi d’interesse che rimarranno ai minimi ancora per un bel po’, penalizzando inevitabilmente rendimenti e attrattiva dei titoli di Stato. La casa che, come certifica anche l’Istat, non è più quel bene rifugio per eccellenza a cui eravamo abituati, sempre pronto a rivalutarsi anno dopo anno, e che soffre in aggiunta di un carico fiscale sempre più pesante. Aggiungete anche – se volete – la decadenza dei patti di sindacato che tante danze hanno menato nei nostri salotti buoni, spesso a scapito dei piccoli risparmiatori, e che adesso fanno posto ad investitori più orientati ai risultati che alle relazioni.
Sono tre ingredienti di un cocktail che dovrebbe rappresentare una pozione magica per Piazza Affari. Con meno appeal dei titoli di Stato, una battuta d’arresto nella cavalcata dei valori immobiliari e una maggiore presenza di investitori istituzionali, la nostra Borsa ha forse un’occasione di diventare grande. O almeno un po’ più grande di quanto adesso sia. Lo hanno capito, del resto, già da mesi proprio i grandi fondi internazionali – americani in testa – che hanno investito ampiamente sulle azioni italiane. Merito certamente di una liquidità che in questa fase storica è sovrabbondante e di un’Europa del Sud che viene oggi percepita come un luogo dove il mix tra rischio e rendimenti è tutto sommato incoraggiante. Ma merito anche delle prospettive specifiche di un’Italia che – se solo riuscisse a svincolarsi dalle note catene che tengono legate le sue imprese – potrebbe riservare bellissime sorprese sul fronte dell’economia reale e dei valori finanziari nei quali quell’economia si riflette. Il contesto internazionale può aiutare. Se da un lato i mercati potrebbero soffrire dei focolai d’instabilità che da locali - Ucraina o Siria - diventano in un soffio globali, negli Stati Uniti una ripresa forse meno effervescente di quanto si pensasse, ma comunque solida, spinge le quotazioni di Wall Street e si trasmette alle altre piazze. Ieri, proprio sull’onda di un calo del tasso di disoccupazione Usa al 6,1% e della creazione per il quinto mese consecutivo di oltre 200 mila posti di lavoro, l’indice Dow Jones ha sfondato per la prima volta nella sua storia quota 17 mila punti.
L’occasione per Piazza Affari e per i risparmiatori non può però essere solo quella di un rialzo da cavalcare, sul quale nessuno ovviamente può dare certezze di durata. Nei primi sei mesi dell’anno Milano ha già guadagnato il 12% – record tra le piazze europee – e c’è già chi teme che la crescita possa cominciare a sgonfiarsi. Più importante dei guadagni di breve periodo è il fatto che in quel rapporto tra imprese in cerca di capitali per crescere e risparmiatori in cerca di impieghi redditizi del loro denaro – un rapporto mediato proprio dalla Borsa – torni a circolare una buona dose di fiducia. Una fiducia che è l’ingrediente meno visibile ma fondamentale senza il quale il cocktail che spinge Piazza Affari rischia di essere solo un intruglio intossicante.
Alcune recenti offerte di azioni al pubblico – è il caso della banca Fineco – hanno dato buoni segnali in questo senso. In altri casi, come quello dell’offerta tutt’altro che riuscita delle azioni Fincantieri, quel rapporto rischia di vacillare: i piccoli risparmiatori italiani che hanno comprato i titoli del gruppo cantieristico pubblico rifiutati dai grandi investitori istituzionali avranno da pentirsene? Lo sapremo nei prossimi mesi.
Per il momento conviene tenere a mente che proprio la fiducia dei risparmiatori è un valore, anche se immateriale, che va tutelato. Dovrà esserlo, sotto la vigilanza della stessa Borsa e dell’autorità di mercato, nelle nuove offerte di azioni che arrivano in questi giorni e dovrà esserlo – a maggior ragione – nella nuova stagione di privatizzazioni che il governo
Il discorso di Strasburgo
divide la critica europea
Elogi sulla Bild, ma i giornali conservatori restano freddi
Qualche riserva ancora c’è, ma leggendo la stampa di questi giorni è innegabile che Matteo Renzi abbia conquistato una notevole apertura di credito all’estero. Più prudente in Germania, più decisa in Francia, discreta persino in un quotidiano letto ovunque nel mondo come il New York Times. L’unico rischio, perlomeno in un Paese tradizionalmente diffidente verso l’Italia come quello di Angela Merkel, è di rovinare tutto con sgarbi come quello al Parlamento europeo, dove mercoledì il presidente del Consiglio ha preferito rinunciare alla rituale conferenza stampa con il presidente Schulz per precipitarsi a Roma e partecipare a Porta a Porta. A Berlino non la considerano ancora la terza Camera del Parlamento e sottrarsi ai giornalisti, in un Paese in cui tre volte a settimana i portavoce della cancelliera e di tutti i ministri si offrono alle domande della stampa internazionale, non piace affatto. La Süddeutsche, quotidiano progressista di Monaco - il più letto dopo il tabloid Bild - lo ha bacchettato duramente ieri e ha chiesto inoltre in un editoriale che dopo tante parole, l’Italia approvi finalmente le riforme.
Sui giornali più conservatori come la Frankfurter Allgemeine Zeitung o sul settimanale Zeit prevalgono ancora i toni cauti e le preoccupazioni per l’iniziativa italo-francese che mira a sfruttare i margini di flessibilità del Patto di stabilità - qualcuno con scarso senso del ridicolo parla persino di «ricatto» - insomma per l’intraprendenza di Renzi nella battaglia per aprire spazi a favore della crescita. Ma c’è anche una fiducia crescente nel presidente del Consiglio, che secondo qualcuno può addirittura riuscire nell’impresa di un «Rinascimento italiano ed europeo».
Nel Paese complice del presunto «ricatto», la Francia, da destra a sinistra i quotidiani più importanti, da Le Figaro a Libération, hanno dedicato articoli al discorso di apertura di Renzi del semestre italiano. Le Monde parla di lui come di un «Telemaco nell’odissea europea». Un’attenzione generale non scontata, peraltro: i giornali britannici hanno ad esempio ignorato tout court l’appuntamento che si ripete ogni sei mesi in un Paese diverso della Ue. Il conservatore Le Figaro parla di una «Renzimania», scoppiata in Europa - anche a causa di un indebolimento della Francia. E se il ritornello è lo stesso dei tedeschi - «deve passare dalle parole ai fatti», il quotidiano gli riconosce «determinazione» e «carisma».
Anche il New York Times, pur citando il fardello dell’enorme debito che grava ancora sui nostri conti e rischia di precettare il futuro, ha raccontato ieri la battaglia intrapresa dal presidente del Consiglio per ammorbidire l’austerità e ha citato il suo «carisma» assieme alla sua «volontà di fare le riforme».
Infine, l’ultimo ma importantissimo sintomo di una simpatia che si sta diffondendo rapidamente nel Paese finora più arcigno nei confronti dell’Italia, è la tedesca Bild, che nei giorni scorsi gli ha dedicato un ritratto molto positivo. Il «Bubi» il «ragazzino» italiano anzitutto ha seppellito il ventennio berlusconiano, argomenta il tabloid. Non è un dettaglio: in Germania Berlusconi è stato vissuto sempre come un autentico incubo. Al quotidiano berlinese il presidente del Consiglio piace perché è giovane, ha incassato un «grasso» risultato elettorale, somiglia in tanti aspetti all’ex cancelliere Schröder e promette di ringiovanire la «vecchia zia» Europa. E il tabloid ricorda anche che Renzi beneficia di una certa simpatia anche da parte della cancelliera.
Mentre dunque i media borghesi tedeschi mantengono ancora una certa diffidenza nei confronti del presidente del Consiglio, il quotidiano da due milioni e mezzo di copie al giorno lo ha sdoganato. Non è un dettaglio: è noto che Merkel consideri la Bild una sorta di termometro degli umori del Paese. Che lei ascolta fin troppo.
[t. mas.]
“Queste reazioni dimostrano
che stiamo facendo sul serio”
Il premier non si scompone e ribadisce ai suoi: dobbiamo andare avanti con le riforme
Fabio Martini
Sul far della sera, quando sul suo tablet ha letto le puntute dichiarazioni del presidente della Bundesbank Jens Weidmann, il presidente del Consiglio non si è scomposto: «Ecco la prova: lo sanno che stiamo facendo sul serio, altrimenti non ci sarebbero state reazioni come questa». Matteo Renzi, si sa, non è uno che si lasci suggestionare dal blasone degli interlocutori e non ha mai sofferto di complessi di inferiorità, ma naturalmente la sortita della Bundesbank non lo ha lasciato indifferente. Anche se, chi ha parlato con lui nel corso della serata, non lo ha trovato preoccupato.
Anzi. Di ritorno dall’importante appuntamento all’Europarlamento di Strasburgo, la decisione di dedicare l’intera giornata a questioni domestiche, ha rappresentato per Renzi una scelta obbligata, ma a suo modo simbolica: in qualche modo la prova che l’imperativo categorico del suo governo è quello di cambiare l’Italia. Questo, per Renzi, è un punto d’onore, un architrave del suo discorso pubblico: l’Italia non incolpa Berlino o Bruxelles per la sua crisi, ma semmai è vero il contrario.
È un tratto del suo europeismo che Renzi ha ribadito spesso nei suoi discorsi in Italia, ma ovviamente si tratta di un concetto che lui stesso ha voluto enfatizzare due giorni fa nel discorso col quale ha presentato la presidenza italiana nel semestre europeo: «L’Italia - aveva detto tra l’altro Renzi - sa che deve fare le sue riforme, cambiare la burocrazia, il sistema fiscale, le istituzioni. Sappiamo che prima di tutto dobbiamo chiedere a noi la forza di cambiare per essere credibili». E poi in uno dei passaggi più apprezzati del suo discorso: «L’Italia non viene qui per chiedere all’Europa i cambiamenti che lei non è in grado di fare, ma a dire che lei per prima crede nelle istituzioni europee. Viene come un grande Paese per dare e non per chiedere».
Naturalmente in Germania, negli ambienti più affezionati alle ricette austere, non sono passati inosservati anche altri due passaggi del discorso di Renzi all’Europarlamento, quello sull’Europa col «volto della noia» e il ricordo, oramai quasi quotidiano per la verità, dello sforamento operato nel 2003 dalla Germania dei parametri imposti dai Trattati. Di qui la reazione, a suo modo irrituale, del presidente della Bundesbank e la successiva valutazione che ieri sera ne facevano a palazzo Chigi: quella reazione è la prova che ora in Europa esiste una reale possibilità di dibattito, di cambiamento e anche la percezione che l’Italia non si limita a predicare ma si prepara a passare all’azione. Ma ora, Renzi lo sa, la palla torna in Italia, e torna in particolare a Palazzo Chigi. Prima dell’estate Renzi sa di dover chiudere la prima puntata delle riforme istituzionali, ma sa pure che dovrà varare quelle riforme strutturali che hanno un alto costo politico e finanziario. Dai colloqui che ha intrecciato in questi mesi a Bruxelles, a Berlino e a Parigi, il presidente del Consiglio sa che, oltre a una fondamentale e radicale spending review, sono tre le riforme attese in Europa, perché capaci di indicare una Italia in movimento: quella della giustizia civile (che renda più fluide e certe le decisioni per le aziende che vogliono investire in Italia); quella del mercato del lavoro (con l’attesa di una maggiore elasticità in uscita); quella della Pubblica amministrazione. Riforme sulle quali incombono tabù e riserve che il presidente del Consiglio dovrà affrontare nelle prossime settimane, valutando se farne riforme strutturali o nominalistiche.
In questi anni, «sotto la pressione di una crisi senza precedenti e di inaudita complessità» le istituzioni europee «hanno dovuto prendere decisioni urgenti e radicali», e l’hanno dovuto fare «anche in direzione avversa a quanto si discusse alla Convenzione e sul Trattato di Lisbona, spostando il peso delle responsabilità sul Consiglio europeo». Decisioni come il fiscal compact che pure,«e lo considero molto importante», «ricolloca nell’ordinamento comunitario anche le nuove cessioni di sovranità». E poi Giorgio Napolitano ricorda di esser stato da europarlamentare «partecipe dei lavori per la Costituzione europea», e che tutto il lavoro svolto allora -e quella che era l’Europa comunitaria- «è stato travolto dalla crisi». Mentre è lì; nell’Europa comunitaria che «dobbiamo ricollocare le decisioni importanti, accelerando l’integrazione europea». Il presidente ieri ha incontrato Barroso e l’intera Commissione uscente, e in un lungo intervento conclusivo ha spronato l’Europa a tornare se stessa, a tornare ad essere una comunità stretta attorno a due istituzioni-cardine, il Parlamento e la Commissione, perché «noi italiani siamo europeisti e siamo sempre stati partigiani della Commissione e del Parlamento», e a Commissione e Parlamento insieme «è affidata l’espressione di una nuova sovranità» e «il corretto funzionamento evolutivo» dell’Unione. Ma lo sprone verso l’Europa comunitaria, oltre alle esplicite e anche commosse lodi finali a Matteo Renzi che «con la forza dei suoi giovani anni ha riferito dei nostri timori per una crisi che ha scosso dalle fondamenta il progetto dell’Europa», è anche un forte appoggio alla linea politica esplicitata solo ventiquattr’ore prima dal presidente del Consiglio davanti al Parlamento di Strasburgo. Non è solo il segno che Telemaco discende da Ulisse, sempre per stare alle citazioni di Renzi: a Napolitano quel passaggio non è sfuggito, vi ha visto traccia di una conseguenzialità ideale, quasi un passaggio di testimone, «il segno dell’eredità di generazioni come la mia», il filo della continuità storica per l’Europa futura, «di cui è essenziale che i giovani si facciano carico».
Ma il punto è il fiscal compact, esplicitamente citato dal presidente che di certo non ne mette in questione l’esistenza, consapevole «del legame strettissimo tra il risanamento della finanza pubblica italiana e la graduale riduzione di uno stock del debito pubblico che risale a molti decenni», riduzione che è «un dovere per l’Italia stessa, prima ancora che per l’Europa». Ma ora «dobbiamo riuscire a coniugare il risanamento con l’obiettivo imperioso del rilancio, della crescita, dell’occupazione». Superando -attenzione- «il circolo vizioso che si è determinato tra conseguenze recessive della crisi e di politiche restrittive, e raggiungimento degli obiettivi, col Pil che non cresce e l’economia stagnante».
«Non sono un presidente esecutivo», ha aggiunto affrontando il tema dell’immigrazione. «L’Europa non vi lascerà soli» aveva detto la commissaria Maelstrom. Napolitano l’ha ringraziata, spronando tutti a «non favorire polemiche sulle responsabilità che si prende l’Italia e non l’Europa: dobbiamo metterci tutti dalla stessa parte del tavolo»
Sul far della sera, quando sul suo tablet ha letto le puntute dichiarazioni del presidente della Bundesbank Jens Weidmann, il presidente del Consiglio non si è scomposto: «Ecco la prova: lo sanno che stiamo facendo sul serio, altrimenti non ci sarebbero state reazioni come questa». Matteo Renzi, si sa, non è uno che si lasci suggestionare dal blasone degli interlocutori e non ha mai sofferto di complessi di inferiorità, ma naturalmente la sortita della Bundesbank non lo ha lasciato indifferente. Anche se, chi ha parlato con lui nel corso della serata, non lo ha trovato preoccupato.
Anzi. Di ritorno dall’importante appuntamento all’Europarlamento di Strasburgo, la decisione di dedicare l’intera giornata a questioni domestiche, ha rappresentato per Renzi una scelta obbligata, ma a suo modo simbolica: in qualche modo la prova che l’imperativo categorico del suo governo è quello di cambiare l’Italia. Questo, per Renzi, è un punto d’onore, un architrave del suo discorso pubblico: l’Italia non incolpa Berlino o Bruxelles per la sua crisi, ma semmai è vero il contrario.
È un tratto del suo europeismo che Renzi ha ribadito spesso nei suoi discorsi in Italia, ma ovviamente si tratta di un concetto che lui stesso ha voluto enfatizzare due giorni fa nel discorso col quale ha presentato la presidenza italiana nel semestre europeo: «L’Italia - aveva detto tra l’altro Renzi - sa che deve fare le sue riforme, cambiare la burocrazia, il sistema fiscale, le istituzioni. Sappiamo che prima di tutto dobbiamo chiedere a noi la forza di cambiare per essere credibili». E poi in uno dei passaggi più apprezzati del suo discorso: «L’Italia non viene qui per chiedere all’Europa i cambiamenti che lei non è in grado di fare, ma a dire che lei per prima crede nelle istituzioni europee. Viene come un grande Paese per dare e non per chiedere».
Naturalmente in Germania, negli ambienti più affezionati alle ricette austere, non sono passati inosservati anche altri due passaggi del discorso di Renzi all’Europarlamento, quello sull’Europa col «volto della noia» e il ricordo, oramai quasi quotidiano per la verità, dello sforamento operato nel 2003 dalla Germania dei parametri imposti dai Trattati. Di qui la reazione, a suo modo irrituale, del presidente della Bundesbank e la successiva valutazione che ieri sera ne facevano a palazzo Chigi: quella reazione è la prova che ora in Europa esiste una reale possibilità di dibattito, di cambiamento e anche la percezione che l’Italia non si limita a predicare ma si prepara a passare all’azione. Ma ora, Renzi lo sa, la palla torna in Italia, e torna in particolare a Palazzo Chigi. Prima dell’estate Renzi sa di dover chiudere la prima puntata delle riforme istituzionali, ma sa pure che dovrà varare quelle riforme strutturali che hanno un alto costo politico e finanziario. Dai colloqui che ha intrecciato in questi mesi a Bruxelles, a Berlino e a Parigi, il presidente del Consiglio sa che, oltre a una fondamentale e radicale spending review, sono tre le riforme attese in Europa, perché capaci di indicare una Italia in movimento: quella della giustizia civile (che renda più fluide e certe le decisioni per le aziende che vogliono investire in Italia); quella del mercato del lavoro (con l’attesa di una maggiore elasticità in uscita); quella della Pubblica amministrazione. Riforme sulle quali incombono tabù e riserve che il presidente del Consiglio dovrà affrontare nelle prossime settimane, valutando se farne riforme strutturali o nominalistiche.
In questi anni, «sotto la pressione di una crisi senza precedenti e di inaudita complessità» le istituzioni europee «hanno dovuto prendere decisioni urgenti e radicali», e l’hanno dovuto fare «anche in direzione avversa a quanto si discusse alla Convenzione e sul Trattato di Lisbona, spostando il peso delle responsabilità sul Consiglio europeo». Decisioni come il fiscal compact che pure,«e lo considero molto importante», «ricolloca nell’ordinamento comunitario anche le nuove cessioni di sovranità». E poi Giorgio Napolitano ricorda di esser stato da europarlamentare «partecipe dei lavori per la Costituzione europea», e che tutto il lavoro svolto allora -e quella che era l’Europa comunitaria- «è stato travolto dalla crisi». Mentre è lì; nell’Europa comunitaria che «dobbiamo ricollocare le decisioni importanti, accelerando l’integrazione europea». Il presidente ieri ha incontrato Barroso e l’intera Commissione uscente, e in un lungo intervento conclusivo ha spronato l’Europa a tornare se stessa, a tornare ad essere una comunità stretta attorno a due istituzioni-cardine, il Parlamento e la Commissione, perché «noi italiani siamo europeisti e siamo sempre stati partigiani della Commissione e del Parlamento», e a Commissione e Parlamento insieme «è affidata l’espressione di una nuova sovranità» e «il corretto funzionamento evolutivo» dell’Unione. Ma lo sprone verso l’Europa comunitaria, oltre alle esplicite e anche commosse lodi finali a Matteo Renzi che «con la forza dei suoi giovani anni ha riferito dei nostri timori per una crisi che ha scosso dalle fondamenta il progetto dell’Europa», è anche un forte appoggio alla linea politica esplicitata solo ventiquattr’ore prima dal presidente del Consiglio davanti al Parlamento di Strasburgo. Non è solo il segno che Telemaco discende da Ulisse, sempre per stare alle citazioni di Renzi: a Napolitano quel passaggio non è sfuggito, vi ha visto traccia di una conseguenzialità ideale, quasi un passaggio di testimone, «il segno dell’eredità di generazioni come la mia», il filo della continuità storica per l’Europa futura, «di cui è essenziale che i giovani si facciano carico».
Ma il punto è il fiscal compact, esplicitamente citato dal presidente che di certo non ne mette in questione l’esistenza, consapevole «del legame strettissimo tra il risanamento della finanza pubblica italiana e la graduale riduzione di uno stock del debito pubblico che risale a molti decenni», riduzione che è «un dovere per l’Italia stessa, prima ancora che per l’Europa». Ma ora «dobbiamo riuscire a coniugare il risanamento con l’obiettivo imperioso del rilancio, della crescita, dell’occupazione». Superando -attenzione- «il circolo vizioso che si è determinato tra conseguenze recessive della crisi e di politiche restrittive, e raggiungimento degli obiettivi, col Pil che non cresce e l’economia stagnante».
«Non sono un presidente esecutivo», ha aggiunto affrontando il tema dell’immigrazione. «L’Europa non vi lascerà soli» aveva detto la commissaria Maelstrom. Napolitano l’ha ringraziata, spronando tutti a «non favorire polemiche sulle responsabilità che si prende l’Italia e non l’Europa: dobbiamo metterci tutti dalla stessa parte del tavolo»
(ARMANDO DADI/AGF) - Strasburgo Il premier Matteo Renzi nell’aula del Parlamento Europeo dove mercoledì ha tenuto il suo discorso
Sul far della sera, quando sul suo tablet ha letto le puntute dichiarazioni del presidente della Bundesbank Jens Weidmann, il presidente del Consiglio non si è scomposto: «Ecco la prova: lo sanno che stiamo facendo sul serio, altrimenti non ci sarebbero state reazioni come questa». Matteo Renzi, si sa, non è uno che si lasci suggestionare dal blasone degli interlocutori e non ha mai sofferto di complessi di inferiorità, ma naturalmente la sortita della Bundesbank non lo ha lasciato indifferente. Anche se, chi ha parlato con lui nel corso della serata, non lo ha trovato preoccupato.
Anzi. Di ritorno dall’importante appuntamento all’Europarlamento di Strasburgo, la decisione di dedicare l’intera giornata a questioni domestiche, ha rappresentato per Renzi una scelta obbligata, ma a suo modo simbolica: in qualche modo la prova che l’imperativo categorico del suo governo è quello di cambiare l’Italia. Questo, per Renzi, è un punto d’onore, un architrave del suo discorso pubblico: l’Italia non incolpa Berlino o Bruxelles per la sua crisi, ma semmai è vero il contrario.
È un tratto del suo europeismo che Renzi ha ribadito spesso nei suoi discorsi in Italia, ma ovviamente si tratta di un concetto che lui stesso ha voluto enfatizzare due giorni fa nel discorso col quale ha presentato la presidenza italiana nel semestre europeo: «L’Italia - aveva detto tra l’altro Renzi - sa che deve fare le sue riforme, cambiare la burocrazia, il sistema fiscale, le istituzioni. Sappiamo che prima di tutto dobbiamo chiedere a noi la forza di cambiare per essere credibili». E poi in uno dei passaggi più apprezzati del suo discorso: «L’Italia non viene qui per chiedere all’Europa i cambiamenti che lei non è in grado di fare, ma a dire che lei per prima crede nelle istituzioni europee. Viene come un grande Paese per dare e non per chiedere».
Naturalmente in Germania, negli ambienti più affezionati alle ricette austere, non sono passati inosservati anche altri due passaggi del discorso di Renzi all’Europarlamento, quello sull’Europa col «volto della noia» e il ricordo, oramai quasi quotidiano per la verità, dello sforamento operato nel 2003 dalla Germania dei parametri imposti dai Trattati. Di qui la reazione, a suo modo irrituale, del presidente della Bundesbank e la successiva valutazione che ieri sera ne facevano a palazzo Chigi: quella reazione è la prova che ora in Europa esiste una reale possibilità di dibattito, di cambiamento e anche la percezione che l’Italia non si limita a predicare ma si prepara a passare all’azione. Ma ora, Renzi lo sa, la palla torna in Italia, e torna in particolare a Palazzo Chigi. Prima dell’estate Renzi sa di dover chiudere la prima puntata delle riforme istituzionali, ma sa pure che dovrà varare quelle riforme strutturali che hanno un alto costo politico e finanziario. Dai colloqui che ha intrecciato in questi mesi a Bruxelles, a Berlino e a Parigi, il presidente del Consiglio sa che, oltre a una fondamentale e radicale spending review, sono tre le riforme attese in Europa, perché capaci di indicare una Italia in movimento: quella della giustizia civile (che renda più fluide e certe le decisioni per le aziende che vogliono investire in Italia); quella del mercato del lavoro (con l’attesa di una maggiore elasticità in uscita); quella della Pubblica amministrazione. Riforme sulle quali incombono tabù e riserve che il presidente del Consiglio dovrà affrontare nelle prossime settimane, valutando se farne riforme strutturali o nominalistiche.
In questi anni, «sotto la pressione di una crisi senza precedenti e di inaudita complessità» le istituzioni europee «hanno dovuto prendere decisioni urgenti e radicali», e l’hanno dovuto fare «anche in direzione avversa a quanto si discusse alla Convenzione e sul Trattato di Lisbona, spostando il peso delle responsabilità sul Consiglio europeo». Decisioni come il fiscal compact che pure,«e lo considero molto importante», «ricolloca nell’ordinamento comunitario anche le nuove cessioni di sovranità». E poi Giorgio Napolitano ricorda di esser stato da europarlamentare «partecipe dei lavori per la Costituzione europea», e che tutto il lavoro svolto allora -e quella che era l’Europa comunitaria- «è stato travolto dalla crisi». Mentre è lì; nell’Europa comunitaria che «dobbiamo ricollocare le decisioni importanti, accelerando l’integrazione europea». Il presidente ieri ha incontrato Barroso e l’intera Commissione uscente, e in un lungo intervento conclusivo ha spronato l’Europa a tornare se stessa, a tornare ad essere una comunità stretta attorno a due istituzioni-cardine, il Parlamento e la Commissione, perché «noi italiani siamo europeisti e siamo sempre stati partigiani della Commissione e del Parlamento», e a Commissione e Parlamento insieme «è affidata l’espressione di una nuova sovranità» e «il corretto funzionamento evolutivo» dell’Unione. Ma lo sprone verso l’Europa comunitaria, oltre alle esplicite e anche commosse lodi finali a Matteo Renzi che «con la forza dei suoi giovani anni ha riferito dei nostri timori per una crisi che ha scosso dalle fondamenta il progetto dell’Europa», è anche un forte appoggio alla linea politica esplicitata solo ventiquattr’ore prima dal presidente del Consiglio davanti al Parlamento di Strasburgo. Non è solo il segno che Telemaco discende da Ulisse, sempre per stare alle citazioni di Renzi: a Napolitano quel passaggio non è sfuggito, vi ha visto traccia di una conseguenzialità ideale, quasi un passaggio di testimone, «il segno dell’eredità di generazioni come la mia», il filo della continuità storica per l’Europa futura, «di cui è essenziale che i giovani si facciano carico».
Ma il punto è il fiscal compact, esplicitamente citato dal presidente che di certo non ne mette in questione l’esistenza, consapevole «del legame strettissimo tra il risanamento della finanza pubblica italiana e la graduale riduzione di uno stock del debito pubblico che risale a molti decenni», riduzione che è «un dovere per l’Italia stessa, prima ancora che per l’Europa». Ma ora «dobbiamo riuscire a coniugare il risanamento con l’obiettivo imperioso del rilancio, della crescita, dell’occupazione». Superando -attenzione- «il circolo vizioso che si è determinato tra conseguenze recessive della crisi e di politiche restrittive, e raggiungimento degli obiettivi, col Pil che non cresce e l’economia stagnante».
«Non sono un presidente esecutivo», ha aggiunto affrontando il tema dell’immigrazione. «L’Europa non vi lascerà soli» aveva detto la commissaria Maelstrom. Napolitano l’ha ringraziata, spronando tutti a «non favorire polemiche sulle responsabilità che si prende l’Italia e non l’Europa: dobbiamo metterci tutti dalla stessa parte del tavolo»
Napolitano: coniugare
risanamento e crescita
Antonella Rampino
In questi anni, «sotto la pressione di una crisi senza precedenti e di inaudita complessità» le istituzioni europee «hanno dovuto prendere decisioni urgenti e radicali», e l’hanno dovuto fare «anche in direzione avversa a quanto si discusse alla Convenzione e sul Trattato di Lisbona, spostando il peso delle responsabilità sul Consiglio europeo». Decisioni come il fiscal compact che pure, «e lo considero molto importante», «ricolloca nell’ordinamento comunitario anche le nuove cessioni di sovranità». E poi Giorgio Napolitano ricorda di esser stato da europarlamentare «partecipe dei lavori per la Costituzione europea», e che tutto il lavoro svolto allora - e quella che era l’Europa comunitaria - «è stato travolto dalla crisi». Mentre è lì, nell’Europa comunitaria che «dobbiamo ricollocare le decisioni importanti, accelerando l’integrazione europea». Il presidente ieri ha incontrato Barroso e l’intera Commissione uscente, e in un lungo intervento conclusivo ha spronato l’Europa a tornare se stessa, a tornare ad essere una comunità stretta attorno a due istituzioni-cardine, il Parlamento e la Commissione, perché «noi italiani siamo europeisti e siamo sempre stati partigiani della Commissione e del Parlamento», e a Commissione e Parlamento insieme «è affidata l’espressione di una nuova sovranità» e «il corretto funzionamento evolutivo» dell’Unione. Ma lo sprone verso l’Europa comunitaria, oltre alle esplicite e anche commosse lodi finali a Matteo Renzi che «con la forza dei suoi giovani anni ha riferito dei nostri timori per una crisi che ha scosso dalle fondamenta il progetto dell’Europa», è anche un forte appoggio alla linea politica esplicitata solo ventiquattr’ore prima dal presidente del Consiglio davanti al Parlamento di Strasburgo. Non è solo il segno che Telemaco discende da Ulisse, sempre per stare alle citazioni di Renzi: a Napolitano quel passaggio non è sfuggito, vi ha visto traccia di una consequenzialità ideale, quasi un passaggio di testimone, «il segno dell’eredità di generazioni come la mia», il filo della continuità storica per l’Europa futura, «di cui è essenziale che i giovani si facciano carico».
Ma il punto è il fiscal compact, esplicitamente citato dal presidente che di certo non ne mette in questione l’esistenza, consapevole «del legame strettissimo tra il risanamento della finanza pubblica italiana e la graduale riduzione di uno stock del debito pubblico che risale a molti decenni», riduzione che è «un dovere per l’Italia stessa, prima ancora che per l’Europa». Ma ora «dobbiamo riuscire a coniugare il risanamento con l’obiettivo imperioso del rilancio, della crescita, dell’occupazione». Superando - attenzione - «il circolo vizioso che si è determinato tra conseguenze recessive della crisi e di politiche restrittive, e raggiungimento degli obiettivi, col Pil che non cresce e l’economia stagnante».
«Non sono un presidente esecutivo», ha aggiunto affrontando il tema dell’immigrazione. «L’Europa non vi lascerà soli» aveva detto la commissaria Malmstrom. Napolitano l’ha ringraziata, spronando tutti a «non favorire polemiche sulle responsabilità che si prende l’Italia e non l’Europa: dobbiamo metterci tutti dalla stessa parte del tavolo».
In questi anni, «sotto la pressione di una crisi senza precedenti e di inaudita complessità» le istituzioni europee «hanno dovuto prendere decisioni urgenti e radicali», e l’hanno dovuto fare «anche in direzione avversa a quanto si discusse alla Convenzione e sul Trattato di Lisbona, spostando il peso delle responsabilità sul Consiglio europeo». Decisioni come il fiscal compact che pure, «e lo considero molto importante», «ricolloca nell’ordinamento comunitario anche le nuove cessioni di sovranità». E poi Giorgio Napolitano ricorda di esser stato da europarlamentare «partecipe dei lavori per la Costituzione europea», e che tutto il lavoro svolto allora - e quella che era l’Europa comunitaria - «è stato travolto dalla crisi». Mentre è lì, nell’Europa comunitaria che «dobbiamo ricollocare le decisioni importanti, accelerando l’integrazione europea». Il presidente ieri ha incontrato Barroso e l’intera Commissione uscente, e in un lungo intervento conclusivo ha spronato l’Europa a tornare se stessa, a tornare ad essere una comunità stretta attorno a due istituzioni-cardine, il Parlamento e la Commissione, perché «noi italiani siamo europeisti e siamo sempre stati partigiani della Commissione e del Parlamento», e a Commissione e Parlamento insieme «è affidata l’espressione di una nuova sovranità» e «il corretto funzionamento evolutivo» dell’Unione. Ma lo sprone verso l’Europa comunitaria, oltre alle esplicite e anche commosse lodi finali a Matteo Renzi che «con la forza dei suoi giovani anni ha riferito dei nostri timori per una crisi che ha scosso dalle fondamenta il progetto dell’Europa», è anche un forte appoggio alla linea politica esplicitata solo ventiquattr’ore prima dal presidente del Consiglio davanti al Parlamento di Strasburgo. Non è solo il segno che Telemaco discende da Ulisse, sempre per stare alle citazioni di Renzi: a Napolitano quel passaggio non è sfuggito, vi ha visto traccia di una consequenzialità ideale, quasi un passaggio di testimone, «il segno dell’eredità di generazioni come la mia», il filo della continuità storica per l’Europa futura, «di cui è essenziale che i giovani si facciano carico».
Ma il punto è il fiscal compact, esplicitamente citato dal presidente che di certo non ne mette in questione l’esistenza, consapevole «del legame strettissimo tra il risanamento della finanza pubblica italiana e la graduale riduzione di uno stock del debito pubblico che risale a molti decenni», riduzione che è «un dovere per l’Italia stessa, prima ancora che per l’Europa». Ma ora «dobbiamo riuscire a coniugare il risanamento con l’obiettivo imperioso del rilancio, della crescita, dell’occupazione». Superando - attenzione - «il circolo vizioso che si è determinato tra conseguenze recessive della crisi e di politiche restrittive, e raggiungimento degli obiettivi, col Pil che non cresce e l’economia stagnante».
«Non sono un presidente esecutivo», ha aggiunto affrontando il tema dell’immigrazione. «L’Europa non vi lascerà soli» aveva detto la commissaria Malmstrom. Napolitano l’ha ringraziata, spronando tutti a «non favorire polemiche sulle responsabilità che si prende l’Italia e non l’Europa: dobbiamo metterci tutti dalla stessa parte del tavolo».