Ilaria Morani, Sette 4/7/2014, 4 luglio 2014
IL LAVORO SPORCO DEI “FIXER”
Ogni giorno per una settimana Igor è partito alle 5 da casa sua a Donetsk, nell’Ucraina dell’Est, ha dato un bacio in fronte alla moglie, alla figlia ancora nel letto, ha pregato, si è fatto tre volte il segno della croce davanti alla chiesa ortodossa del quartiere e si è messo in macchina verso Slavianks. Centoquaranta chilometri, superando almeno dieci checkpoint ucraini e filorussi per assistere due fotoreporter polacchi. Da qualche mese le sue giornate sono cambiate e da essere tassista è diventato “fixer”. Ora usa l’auto per portare i giornalisti nelle zone più calde della guerra, come Slavianks, trova i contatti per le interviste, rischia ogni giorno la vita. Per questo sua moglie vuole che torni a casa ogni notte e riparta quando finisce il coprifuoco: perché ha paura. Igor ha 45 anni, conosce quel che basta di inglese per riuscire a comunicare e fare da interprete, ha i modi gentili di un papà e assomiglia in maniera impressionante a Francesco Guccini 30 anni fa.
Essere un fixer nell’Ucraina di oggi è quasi un dovere per chi possiede un’auto e parla qualche parola di un’altra lingua. Meglio l’inglese. In un Paese come questo, fixer si diventa per necessità: la guerra è sconosciuta da qualche decina d’anni, non è la Siria o la Palestina. Il lavoro è nuovo e solo i più svegli riescono nel mestiere e sono soprattutto coloro che vogliono essere partecipi del cambiamento storico della loro nazione. Il fixer è un interprete, un ufficio stampa, è colui che cerca i contatti, organizza interviste, lavora sulle storie, media con i soldati, rischiando tanto. Il fixer, se è bravo, sostituisce il giornalista: fa il lavoro sporco, ma indispensabile per veicolare informazioni ed emozioni. E in Ucraina se non si conosce la lingua locale o il russo parlare con la gente è praticamente impossibile. E poi c’è la parte economica: il lavoro non c’è e interagire con la stampa internazionale è l’unico modo per portare i soldi a casa, molti, spesso più di quelli che si guadagnavano prima. Tutto dipende da quanti contatti si hanno e da quanto sono rischiose le “missioni” assegnate dai giornalisti.
Terrore e fuga. Uomo o donna, non importa. Lena a marzo ha iniziato a lavorare come autista. «Un amico mi ha chiesto se volevo guadagnare qualche soldo visto che ho l’auto e parlo un po’ di inglese. Sono attivista di Maidan, sono la responsabile dell’Ukrainian Scout Organization e mi sono sentita in dovere di lavorare anche così per il mio Paese». Lena ora vive a Kiev, ha dovuto lasciare in tutta fretta Donetsk, la città dove è nata, dopo che i separatisti russi l’hanno trattenuta per sei ore in uno scantinato insieme alla giornalista con cui lavorava. «Sapevo che era pericoloso: ho iniziato ad affiancare una reporter del New York Times che mi ha subito chiesto di cancellare tutti i miei contatti sul telefono e sul computer. Ho gettato via tutte le mie foto, ho chiuso la pagina Facebook e cambiato in inglese la lingua su tutti i miei dispositivi elettronici». Sono le precauzioni da tenere. I rapimenti e le perquisizioni sono all’ordine del giorno e dalla posta elettronica i filorussi spesso risalgono a parenti e amici dei fixer. «Quel giorno era appena iniziata l’operazione antiterrorismo del governo di Kiev e abbiamo deciso di andare verso Slavianks, spiega Lena. La situazione sembrava tranquilla: si sentivano spari in lontananza ma ai primi checkpoint si passava senza troppi problemi, finché all’ultimo, quello più vicino alla città, siamo stati fermati». Lena è stata portata in diversi luoghi fino a essere rinchiusa in una stanza a Gorlivka. «Mi hanno chiesto di spiegare i motivi della guerra in inglese, ucraino e russo, mi hanno chiesto della mia famiglia, il mio lavoro… pensavano fossimo spie americane». Dopo quell’esperienza la vita è cambiata, «non riuscivo più nemmeno a uscire di casa per la paura di essere seguita», e ha preso il treno per Kiev. Sola andata, per ora.
Anche Vladymyr è scappato, ma non vuole dire dove. Vuole ricevere solo brevi telefonate e ogni volta cambia numero di telefono. Un mese fa era riuscito a salvare un giornalista svedese da un agguato dei filorussi: e ora è un ricercato.
Nel Dombass si continua a combattere: dalla Russia e dai Paesi confinanti arrivano camion di mercenari armati che si aggiungono alle milizie separatiste. Sull’altro fronte anche l’esercito di Kiev sta reclutando nuovi uomini e ampliando la flotta aerea. Gli attacchi sono quotidiani: ai checkpoint, nel cuore di Slavianks, Lughanks, lungo il confine russo.
Il dovere di rischiare. La guerra serve ai fixer. Se non si spara la giornata lavorativa è persa. Se non ci sono morti da andare a cercare e fotografare, è difficile fare la spesa da portare a casa. «A volte mi sento male, aspetto che muoia un uomo del mio stesso Paese perché solo così i media possono prestare attenzione al nostro dolore». Alex è diventato fixer esclusivamente per denaro. «Ho una fidanzata e i miei genitori sono anziani, io devo provvedere a loro». La mamma è russa, il papà ucraino: «Come posso schierarmi da una parte o dall’altra?». Veronika ha 29 anni ed è mamma di una bimba di due anni e mezzo, Victoria. Lavora presso la compagnia aerea Lufthansa, ma ora è a casa per la maternità. «Conosco l’inglese e lavoro spesso come interprete soprattutto per l’Osce. Ho bisogno di badare alla mia famiglia ora più che mai. Ho paura a uscire da casa, ma devo rischiare tutto per mia figlia», racconta mentre accompagna una troupe televisiva in piazza Lenin a Donetsk per assistere a un comizio politico.
A volte non sono solo i soldi che spingono i ragazzi ucraini ad avvicinarsi tanto al conflitto. Spesso è il desiderio di conoscere la verità e di poterla comunicare e di essere realmente gli unici tramiti tra i mortai e le granate e i giornali stranieri. Volodymyr è uno di questi. Quando lavorava come avvocato a Kiev guadagnava molto di più. Nei giorni delle manifestazioni a Maidan nella capitale lui era volontario per prestare assistenza legale ai feriti. Ogni giorno si recava nella sala stampa e a poco a poco ha conosciuto tutti i reporter. «Mi hanno chiesto di lavorare per EuromaidanPr, la voce ufficiale della protesta, e coordinare la comunicazione attraverso i social network. Ma poi ho capito che solo il fixer può davvero essere parte della rivoluzione. Così ho lasciato il mio lavoro per mettermi al servizio dei giornalisti». Chiede fino a 200 dollari al giorno, ma dipende da quanti rischi ci sono. «La parte più difficile è mediare con i soldati. Ai checkpoint a volte è complicato convincere i miliziani di non essere spie straniere». In Crimea è stato trattenuto da un gruppo di filorussi per una giornata con le armi puntate alla testa, mentre i soldati controllavano tutto il materiale registrato sulle telecamere, computer e cellulari. Una verifica minuziosa conclusasi solo a tarda notte.
Dima, invece, ha sfiorato i colpi di mortaio per pochi minuti: lui e giornalisti che guidava si sono salvati solo per aver ascoltato la radio di un militare che avvisava dell’attacco in arrivo. Dima vuole costruire impianti eolici e spera solo che la crisi e la guerra finiscano in fretta per potere realizzare il suo sogno. Alex, un ingegnere di 27 anni, è stato nascosto in una fossa per tre ore il giorno dell’attacco aereo all’aeroporto di Donetsk dopo essere finito in mezzo al fuoco incrociato dei filorussi e dell’esercito. Ma poi è diventato il fixer di fiducia del New York Times e «ho potuto raccontare tante storie che nemmeno immaginavo. Forse un giorno farò il giornalista», spiega.
Un’ultima categoria di fixer è quella più intellettuale, poco di azione. È l’esempio di Alex Ryabchyn, un ricercatore dell’università di Donetsk. Nei mesi scorsi ha lavorato a lungo con i principali media americani. «Non sono una persona che ama le armi e la guerriglia. Ho famiglia, non posso rischiare così tanto, ma ho bisogno di soldi. Così presto un altro tipo di servizio: cerco contatti, innanzitutto, e numeri». Tutte le cifre apparse sulla stampa il giorno del referendum per l’indipendenza del Dombass dell’11 maggio e poi delle elezioni presidenziali del 25 sono uscite dai suoi grafici e dai suoi calcoli». Solo il 20 per cento delle persone di questa regione vuole realmente separarsi dall’Ucraina. Le altre vogliono solo la pace. È sempre più evidente che è una guerra tra oligarchi, politica e soldi. Se questi sono i presupposti la crisi ucraina tarderà a finire». Il rischio nel lavoro è stato toccato con mano il 24 maggio quando ad Andreevska sono stati uccisi dai colpi dei mortai ucraini il fotografo italiano Andrea Rocchelli e Andry Mironov. Andry, il russo, non era solo un fixer. Era molto di più: un interprete, un attivista, un uomo di cultura, un alleato fedele per i moltissimi giornalisti che lo hanno incontrato.