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 2014  luglio 04 Venerdì calendario

E LA CHIAMANO ANCORA ESTATE


L’estate è un genere letterario non una stagione. Lo sospettavo da tempo e me l’ha confermato il libro Mare verticale (Laterza), un viaggio nella Liguria di Levante, dalle Cinque Terre a Bocca di Magra. L’ha scritto Marco Ferrari, che è un vecchio amico (abbiamo cominciato assieme, da bambini, a fare i giornalisti). Gli ho chiesto di rifare il viaggio del libro assieme a lui. È un venerdì mattina molto presto e siamo a Manarola, il luogo del delitto. È pieno di turisti, soprattutto americani.
«Il colpevole si chiama Rick Steves, ha pubblicato 25 guide turistiche, vendendone 3 milioni di copie. È lui l’autore di Italy’s Cinque Terre, l’arma del delitto. Steves fa 70 milioni di ascolti ogni settimana con la sua trasmissione tv. I pullman, i vaporetti, i treni stracolmi che vedi qui intorno sono in gran parte merito suo. Le Cinque Terre contano due milioni e mezzo di turisti l’anno e un milione sono americani. Li manda Rick Steves. Vengono qui come se fosse Disneyland. Ma la Liguria è un’altra cosa, era un’altra cosa. E anche le vacanze, le estati erano un’altra cosa. Seguimi».
Alla stazione di Manarola prendiamo il treno per Monterosso. Qui giunti ci inoltriamo per via Fegina, ormai un paesaggio da via Gluck celentanesca («solo case su case, catrame e cemento») e saliamo fino al viale Domenico Montale. Il covo della poesia novecentesca, come dice Marco, la famosa pagoda di Eugenio Montale, Nobel per la poesia 1975. Le cose sono cambiate. Villa Montale, che occhieggia tra due palme piantate esattamente nel 1900, è adesso un normale condominio, con inquilini un po’ infastiditi dai curiosi che arrivano qui in pellegrinaggio letterario.
«Le cose cominciarono a cambiare già col poeta ancora vivo», racconta Marco. «Palazzine e palazzacci, torrette e bungalow, villette con i sette nani e stabilimenti balneari muniti di altoparlanti presero il posto del classico paesaggio montaliano: i greti, le petraie, i botri, i muretti a secco, gli eucalipti, le agavi, i sambuchi, i carrubi, gli orti dei limoni, le latte appese alle canne per tenere lontani gli uccelli, i botri, i vitigni, i cavallucci marini, gli ossi di seppia, le folaghe, i balestrucci».
Quello che la mia guida snocciola è una specie di catasto vegetale e animale della più grande poesia italiana novecentesca. Ma per il popolo di Rick Steves gli ossi di seppia potrebbero essere, tutt’al più, un piatto di sushi. Lo interrompo (confesso, a malincuore). Per il bene del servizio che devo scrivere, è meglio che l’incanto poetico ceda il passo al pettegolezzo giornalistico. Domando a Marco come Montale passava le estati qui.
«Faceva trekking in compagnia di Piero Gadda Conti, il cugino di Carlo Emilio, che abitava al Castello di Levanto. Nell’estate del 1926, per esempio, andarono da Levanto a Portovenere. Camminando Montale, che sognava di fare il cantante lirico da grande, accennava qualche aria. Anche in queste occasioni sportive il poeta indossava il suo completo scuro d’ordinanza. Non è mai stato fotografato in maglietta balneare o costume da bagno».
Di tracce montaliane i luoghi conservano ormai ben poco. «Vedi quella colata di cemento? Era la casa dei doganieri. Già nel 1954, quando la speculazione edilizia faceva sentire i suoi primi effetti, Montale scrisse alla madre: “Cercherò di non passare più sulla linea Genova-Spezia”. I suoi genitori e i suoi fratelli sono sepolti qui nel cimitero dei Cappuccini, mentre lui preferì il camposanto di San Felice a Ema, sulle colline di Firenze. Vorrà dire qualcosa?».
Una specie di damnatio memoriae. Ma (ricordiamoci che questo è un servizio estivo, un po’ di gossip non guasterebbe) qualche storia di donne, di amorazzi balneari di Montale a Monterosso? Marco ridacchia (è del mestiere anche lui, pure se nel libro si è dato in prestito alla poesia) e mi racconta dei coniugi Pastine, emigrati in Sudamerica e poi tornati, arricchiti, a Monterosso dove si costruirono una casa disneyana. «Montale raccontava del signor Pastine che passeggiava sul terrazzo della villa col panama in testa. Aveva i baffi lunghi e morbidi, portava cravatte vistose e camicie di seta cruda». La parte piccante del racconto riguarda la signora Pastine che Montale aveva ribattezzato Donna Juanita. «Lei scendeva sulla spiaggia per il bagno, verso mezzogiorno, avvolta in un grande accappatoio e con un largo cappello di paglia. Era nera e formosa e non permetteva sguardi indiscreti. Entrava nell’unica cabina esistente per spogliarsi e ne usciva più vestita di prima».

L’alcova del regista. Ma la vera curiosità erotica si trova a Vernazza. Appena arriviamo Marco mi porta a vedere una strana zucca di cemento e di ferro con un piccolo pertugio per ingresso e due sole aperture tonde, una che guarda verso il mare e l’altra verso il paese. Dopo averla osservata, interrogo con lo sguardo il mio cicerone. «È un’alcova. Ci si sta appena in due, avvinti l’uno all’altro, in un intrico di corpi nudi e baci». Poi mi spiega l’arcano. L’alcova fu fatta costruire da Aldo Trionfo, il regista teatrale che negli Anni Sessanta comprò un quarto del villaggio di Vernazza, compresa la Torre accanto alla quale costruì l’alcova. Trionfo era gay, ebreo (di famiglia perseguitata), colto, geniale e garbatamente provocatore (riportò in scena Wanda Osiris da vecchia e le fece scendere la famosa scala come ai tempi ruggenti). Trasformò Vernazza in una specie di Saint-Paul de Vence. Il popolo del teatro off si riversò in paese. Racconta Marco: «La gente veniva per una sera e si fermava una stagione, dormiva nelle case dei contadini. L’happy hour era all’osteria di Vittorio, un bicchiere di bianco, un piatto d’acciughe sott’olio e un occhio al tramonto che accendeva d’arancio il paese. La notte alla trattoria da Franzi, in piazza Marconi, si apriva il salotto delle Cinque Terre. C’erano Paolo Villaggio, il giovane De André (detto “anciua”, acciuga, per la sua magrezza), Gino Paoli, Renato Rascel, Dario Fo e Franca Rame. Succedeva di tutto. Un pittore milanese se ne scappò all’alba senza pagare l’affitto e portandosi via la bella figlia del padrone di casa…».
Ma il personaggio a cui Ferrari dedica pagine molto belle è quello di Alighiero Boetti, l’inventore dell’arte povera. Capitò a Vernazza per caso. Probabilmente strafatto, come era uso ai tempi, finì con la macchina dentro il bosco e si innamorò del luogo. Comprò una casetta di pietra a rate. «Somigliava ad Alan Ford, il personaggio dei fumetti di Magnus, mento sporgente, occhi incavati. Ma anche a Gigi Meroni, il calciatore beat. Accento torinese, un vistoso anello d’alluminio al dito, Boetti discendeva da Giovanni Battista, monaco settecentesco, missionario in Caucaso col nome di Profeta Mansur. Rifece i viaggi di quell’antenato. Fu di casa a Kabul. Nelle sue bellissime mappe ridisegnò il mondo. A Vernazza si portò dietro un amico afghano, Salomon, che ancora oggi gira per il paese con addosso il cappotto di cammello che Boetti gli lasciò in eredità. A Vernazza vive anche il pittore Antonio Barrani. La sua mamma accompagnava Boetti a casa portando sulla testa le ceste con la spesa. Lui le chiedeva se preferiva essere pagata in lire oppure con uno schizzo a biro. Lei, con cautela tutta ligure, sceglieva sempre i soldi. Se avesse accettato i disegni avrebbe messo da parte un patrimonio».

L’ultimo bombardamento. Lasciamo le Cinque Terre e ci dirigiamo a Spezia, la città di Marco. «Innanzitutto si dice Spezia e non La Spezia. A noi l’articolo ce l’ha aggiunto Mussolini che pensava di farci diventare grandi come Il Cairo o La Mecca. La città era un giardino liberty d’eleganza savoiarda con grandi alberghi, rotonde sul mare, toboga e vele, e l’anima francese più che ligure. Qui venivano George Byron, Percy Bysshe Shelley (che morì nel mare di Lerici), Mary Shelley, Richard Wagner, George Sand, Charles Dickens. Un viaggiatore inglese guardando il Golfo dei Poeti sul quale la città si affaccia disse che quella era “la vista del mondo”. A chiamarlo Golfo dei Poeti fu Sem Benelli che qui scrisse La cena delle beffe (che da bambini ci faceva ridere per la battuta detta da Amedeo Nazzari con pronuncia cagliaritana: “Chi non beve con me, peste lo colga!”). Tutta questa bellezza fu distrutta con la seconda guerra mondiale. Questo era il più grande arsenale militare della penisola. Non andarono per il sottile con i bombardamenti».
Furono distrutti il Municipio, il convento delle Clarisse, Palazzo Doria. E quel poco che non fu distrutto allora è stato distrutto da poco. Vittorio Sgarbi si è battuto leoninamente contro la deturpazione subita da piazza Verdi. Scampata alla guerra, la piazza con i suoi alberi secolari non è riuscita a scampare al sindaco Federici e a dei mercanti d’arte famosi nell’ambiente con il soprannome «I Vampiri». Per fare posto a un progetto dimenticabilissimo dell’artista Daniel Buren, qui è stata sganciata l’ultima bomba della seconda guerra mondiale per cancellare l’ultima piazza francese di Spezia. Una catastrofe nata dall’alleanza letale fra l’ignoranza dei politici e l’affarismo dei mercanti d’arte.
«Ogni spezzino nasce con in dote un senso di bellezza perduta», dice Marco. «Siamo passati dal Golfo dei Poeti al Golfo dei container in un secolo e mezzo». Ci sarebbe da piangere ma fortunatamente c’è anche da sorridere (e da ridere). E questo grazie a due miti di Marco Ferrari, due persone che ha conosciuto bene, due glorie letterarie di Spezia. Il primo è Giancarlo Fusco, grande giornalista dell’Espresso di Arrigo Benedetti e del Giorno. Di lui Vittorio Gassman diceva: «Fusco inventa la verità».
Era nato bene Fusco, figlio di ammiraglio. E visse molte vite. Fu campione italiano dei pesi gallo, al limite dei 54 chili (era piccolino e compatto), ballerino di tip tap, gangster a Marsiglia, prigioniero di guerra in Albania, partigiano, dirigente comunista, ladro di biciclette (non il film), cantante nei night versiliesi... (e il catalogo non è questo, è più lungo). Di Spezia conosceva ogni piega. Guardando il porto e l’Arsenale, Omero avrebbe stilato un altro dei suoi cataloghi delle navi. Fusco, benché figlio di ammiraglio, stilò invece il catalogo dei bordelli all’epoca del fascismo. Racconta Marco: «Al quartiere del Poggio c’erano i postriboli, meta dei marinai e dei marittimi. Ma non solo loro. Tra i clienti c’era anche la meglio nobiltà. La rappresentava al massimo grado Aimone di Savoia, duca di Spoleto e re di Croazia col nome di Tomislavo. Fusco ci ha tramandato persino i nomi delle ragazze: Brunella, Mirabella, Doriana, Fosca, Malombra, Manon, Violetta, Ramona, Thea, Clizia, Colette, Titti, Beba, Dolly, Nanette, Pupa, Lulù. Esercitavano alla Suprema (riservato agli aristocratici e agli alti ufficiali), al Triangolo (clientela di borghesi e sottoufficiali), al Minestrone che, come dice il nome stesso, si rivolgeva a un pubblico di portuali, operai e malavitosi dal coltello facile. E poi c’era il Novecento, quello che ti ho fatto vedere prima dalla finestra della cucina a casa mia. Ora è un albergo ma prima era una casa d’appuntamenti per uomini eleganti e straccioni, viaggiatori di passaggio e giocatori d’azzardo. Fusco, come Mister Hyde, andava a cercare i suoi personaggi e le sue storie in questi posti e in altri come il cinema teatro Monteverdi, la palestra pugilistica Virtus, le accademie di biliardo».
L’altro mito letterario spezzino è Gino Patroni, re del calembour. E cantore della particolare saudade spezzina (quella di cui soffrono tanto quelli del posto a cominciare dall’editore Mario Spagnol che, non a caso, fu l’editore dei libri di Patroni). Andò a lavorare in un grande quotidiano milanese ma se ne andò quasi subito lasciando sulla macchina per scrivere, a mo’ di saluto, un foglio con le parole: «La cosa più bella di Milano è la stazione, c’è sempre un treno per Spezia». Tornato nella sua città viveva praticamente seduto a un tavolo del bar Peola. Scriveva sui tovaglioli di carta. Racconta Marco: «Nel 1989 gli chiesi un articolo per il bicentenario della Rivoluzione francese. Te lo faccio subito, mi disse. Prese una carta di quelle con cui si avvolgono le paste e scrisse di getto: “Parigi, Natale 1789: buone teste a tutti”».
Da quando eravamo ragazzi Marco e io facciamo una gara per stabilire quale è stata la battuta più bella di Patroni. Io sono per: «Mensa aziendale: primo, secondo ed è subito pera». Marco ama quella pronunciata da Patroni in sala operatoria quando un attimo prima che cominciasse l’intervento chiese al chirurgo: «Chi ha lasciato l’aorta aperta?».
Si sta facendo tardi. Passiamo veloci per Lerici. «Qui una volta nel giardino della villa dell’editore Valentino Bompiani potevi trovare Guido Piovene, Alberto Moravia, Italo Calvino, Renato Guttuso, Cesare Zavattini, Dino Buzzati, Elio Vittorini, Pier Paolo Pasolini, Alberto Arbasino». La nostra meta è Tellaro e, precisamente, la villa di Mario Soldati, una palazzina a un piano che Ferrari ha frequentato negli ultimi anni della lunga vita dello scrittore. Intorno alla casa, un giardino di lecci e di ulivi con la lapide per il fedele cagnolino: «Qui giace Tremolo, uno di noi, forse il migliore». Soldati capitò qui nel 1958 sulle tracce di un altro scrittore che ha vissuto in questi luoghi. Soldati stava inseguendo una cassapanca dove D. H. Lawrence avrebbe lasciato manoscritti inediti (magari il prequel dell’Amante di Lady Chatterley?). Quella cassapanca Soldati l’aveva cercata nella piccola casa rosa a Fiascherino dove Lawrence aveva vissuto con la moglie Frieda. Quel punto della costa fu poi ribattezzato in suo onore Baia di Lorenzo.

Il rito del riposino. Marco racconta la giornata di Soldati da vecchio. «La mattina si faceva leggere i giornali, poi pranzava davanti a uno schermo tv gigante, quindi si sedeva in una poltrona in fondo a un corridoio con un fazzoletto steso sul volto, quello che gli metteva al momento del riposino sua madre quando era bambino. Era un rito da osservare con delicatezza, l’ho fatto tante volte prima di salutarlo e andare via». Ai visitatori Soldati regalava volentieri il corposo volume La salama da sugo, scritto per conto della Camera di commercio di Ferrara e di cui possedeva una scatola piena. La giornata finiva in gloria al tramonto: «Soldati si vestiva come se dovesse andare in città, giacca, panciotto, farfallino e bastone. Poi si metteva sulla terrazza di pietra davanti a Tellaro e guardava, come il comandante dal cassero della nave, il sole che si spegne sull’isola della Palmaria, sul Tino e sul Tinetto». La vista del mondo.
A volte, Marco accompagnava Soldati al Circolo Anziani del Favaro, a Spezia, sede di un’accademia di scopone. I compagni di gioco dello scrittore erano Giovanni Gritti, guardia forestale in pensione, Silvio Bruni, carpentiere e l’avvocato Cigarini. Diceva Soldati che Bruni, che era campione d’Italia, conosceva 2.420 possibilità di sparigliare. Una delle massime di gioco pronunciate da Soldati ancora si sente ripetere al circolo, è diventata una frase storica: «È più difficile saper calare che prendere».
Marco ama ricordare altre parole di Soldati sempre riferite allo scopone, quelle che dicono: «Proverò sempre a non sentirmi un computer ma a riflettere in una partita di scopone l’intera vita come in uno specchio simbolico di tutte le sue avventure, sorprese, colpi di scena, astuzie, pazienze, dispiaceri, desideri, estasi e rimpianti». Marco le ripete e poi commenta: «Non lo sapeva, ma era il suo epitaffio».
La visita, commossa, a Tellaro è finita. Partiamo per Bocca di Magra. Ferrari scrive nel suo libro: «Nella nitidezza delle giornate lunghe, Bocca di Magra trasmette l’idea della frontiera geografica e fisica ma anche mentale. Qui la penisola italiana è al punto di svolta: le montagne non si gettano più nel mare». Comincia la pianura, siamo prossimi alle spiagge lunghe e piatte della Versilia. Su quella frontiera, alcuni dei maggiori intellettuali italiani (e stranieri) del dopoguerra trovarono il loro buen retiro. I villeggianti erano Vittorio Sereni, Elio Vittorini, Giulio Einaudi (che qui si disintossicava delle trenta nazionali quotidiane), Cesare Pavese, Eugenio Montale (in fuga, come abbiamo visto, da Monterosso e in procinto di tradire Bocca per le spiagge comode del Forte), Franco Fortini (che ha voluto fare seppellire le sue ceneri al cimiterino di Montemarcello), Mary Mc Carthy, Nicola Chiaromonte e tanti altri.

Il ballo del Pilota. Era una cosa semplice e funzionava così. «La locanda del posto era il Sans Façon, casetta a un piano con una torretta e, dall’altra parte della strada, un pergolato affacciato sulle acque del fiume dove si specchiano le Alpi Apuane. I bagni si facevano a Punta Corvo, sotto Montemarcello, o tra gli scogli di Punta Bianca». E la sera? Ecco la testimonianza lasciata da Marguerite Duras: «Si ballava vicino al fiume su una pista appoggiata su palafitte, circondata da uno steccato di canne da cui pendevano delle lanterne veneziane». Era la locanda del Pilota, di là dal Magra.
Discutevano molto questi poeti e scrittori sotto il pergolato. Dicevano anche che venivano qui per scrivere in santa pace. Ma forse non era vero a giudicare dai versi di Vittorio Sereni nella poesia Un posto di vacanza: «Mai la pagina bianca o meno per sé sola invoglia / tanto meno qui tra fiume e mare».
Cercarono anche, quegli intellettuali, di salvare quei luoghi dalle speculazioni. Commissionarono un piano regolatore all’architetto Giancarlo De Carlo e lo regalarono alla comunità. Luciano Bianciardi, che aveva visto lo strazio della rapallizzazione, ironizzò in versi sull’impegno ecologico di quei villeggianti eccellenti: «Orsù amici! In fitta schiera difendiamo la scogliera. / Osteggiamo con furore il venale speculatore / che lottizza, taglia e sparte. Via la pista del gocarte!».
La pista del go-kart c’è ancora ed è ormai un cimelio commovente degli Anni Sessanta. Vittorio Sereni è una targa sul lungofiume ed Elio Vittorini un largo.
Il sole tramonta. Ci fermiamo alla Capannina di Ciccio per un aperitivo. Marco mi racconta una storia d’amore estivo («Visto che ti piacciono tanto»). Me l’ha conservata per il congedo. È quello che ci vuole per chiudere in bellezza. «Una giornata di fine estate del 1950 arrivò una lettera all’ufficio postale di Bocca di Magra. Il francobollo raffigurava la fiera di Milano, costava venti lire e aveva il timbro di Torino. La firma era quella di Cesare Pavese. Prima di suicidarsi, lo scrittore scelse la Pierina, che aveva conosciuto qui e con la quale aveva ballato al Pilota, quale ultima e forse inconsapevole traghettatrice verso il nulla».
Marco si alza e mi fa segno di andare. Dove? «A Trebiano, così ti faccio sedere sulla panchina dove sedeva Jean-Paul Sartre». E che ci faceva Sartre a Trebiano? «Lì aveva una casa Hélène, la sorella di Simone de Beauvoir». Insomma, si riparte.