Riccardo Staglianò, il Venerdì di Repubblica 4/7/2014, 4 luglio 2014
IL WEB STA UCCIDENDO LA CLASSE MEDIA
La stanza dove lavora è un antro platonico. Per arrivarci bisogna superare canyon di libri e oggetti per terra. Ma il massimo livello di entropia si raggiunge varcando la porta. Un grande computer su un lato e, subito dietro la sedia, una selva di strumenti musicali: chitarre di ogni genere ed epoca, mandole, sitar, arpe, tamburi, cembali, appoggiati o appesi al soffitto basso, insonorizzato con una gomma nera. Al riparo di questo buio microcosmo domestico Jaron Lanier ha a lungo creduto, restando nella metafora, alle ombre riflesse sullo schermo. All’opinione diffusa, che da pioniere della realtà virtuale ha contribuito a creare, secondo la quale internet fosse la soluzione di tutti i mali. La garanzia autoevidente che le magnifiche sorti progredivano. Poi però ha assistito all’implosione dell’industria musicale («Vale un quarto di quanto valeva solo pochi anni fa. Presto varrà un decimo»). Ha visto sale di registrazione chiudere, sostituite da app fai da te. E guardato con sgomento assottigliarsi le royalty di gruppi che prima ci campavano. Dice: «Si salvano giusto le star. E i liutai, perché non sono sostituibili dalle macchine». Un mondo senza rock è triste, ma funziona ancora. Però a quel punto lui ha distolto lo sguardo dal monitor e ha deciso di guardare alle cose così come appaiono alla luce del sole. Arrendendosi a una realtà diversa da quella che gli era piaciuto immaginare. Giganti della new economy che impiegano un millesimo dei dipendenti della old economy. Negozi che muoiono, asfaltati da Amazon e le sue sorelle. Lavoratori che assistono all’inabissamento dei loro salari, prima parametrati ai cinesi, ora al software. Conclusione (sofferta e provvisoria): «Per quanto mi faccia male dirlo, potremo anche sopravvivere distruggendo solo la classe media composta da musicisti, giornalisti e fotografi. Ciò che non è sostenibile è la distruzione di quella che lavora nei trasporti, nella manifattura, nel settore energetico, nell’educazione e nella sanità, oltre che nel terziario. E una tale distruzione accadrà, a meno che le idee dominanti sull’economia dell’informazione non facciano dei passi avanti». Fine dell’innocenza.
La reazione immediata a questo atto d’accusa è una scrollata di spalle: è il progresso, bellezza! Nella prima rivoluzione industriale i telai hanno fatto fuori gli operai tessili, oggi i computer rimpiazzano professionisti d’ogni ordine e grado. Ma ci sono differenze sostanziali. Quando si è passati dalla carrozza all’auto c’era sempre un uomo al volante, mentre l’imminente driverless car farà a meno anche di lui. Prima i robot alleviavano il lavoro pesante dei colletti blu, ora l’algoritmo rende superfluo quello leggero e creativo dei colletti bianchi. E poi, fino a una certa data, più efficienza (dovuta largamente all’automazione) significava un’economia più florida. Magari uno perdeva il posto in manifattura e ne trovava un altro nei servizi. Neppure quelli sono più un rifugio. Un dato da mandare a memoria: dal dopoguerra al 2000 produttività e occupazione crescono di pari passo. Dopo, la seconda curva si affloscia perché le macchine corrono troppo in fretta, hanno bisogno di meno uomini e questi non ce la fanno ad acquisire le competenze per star loro dietro. È il Grande Disaccoppiamento di cui parlano Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, due professori del Mit, in The Second Machine Age. Il Pil complessivo cresce, il salario medio no. Carl Benedikt Frey e Michael Osborne, docenti a Oxford, hanno calcolato che il 47 per cento dei mestieri attuali negli Stati Uniti è a rischio estinzione per l’informatizzazione. Lo strappo è violento e rapido. Lanier è tra i primi a infrangere il tabù per cui internet e benessere economico coinciderebbero per definizione. Nel 2011, con You’re not a gadget: a manifesto, sostiene che il web 2.0, quello in cui i consumatori diventano anche produttori di informazioni – status di Facebook, foto su Instagram, opinioni su Twitter – è un truffa. Perché noi lavoriamo, gratis, a condividere mici, baci coi fidanzati e spiritosaggini, ma a guadagnarci è Zuckerberg. Nel 2013 Lanier torna sul tema con Who Owns the Future, tradotto in La dignità digitale al tempo di internet (il Saggiatore). È la critica più ampia, di lunga gittata e convincente. Di uno insospettabile, che era nel pacchetto di mischia dei padri nella rete («Resto in buoni rapporti con tutti: Jobs era un amico, Bezos lo è, Gates mi ha anche offerto il mio attuale lavoro. Ma quando scrivevo che l’online avrebbe liberato la musica, mi sbagliavo di grosso»). Che non si sogna neppure di mettersi di traverso alla tecnologia, convinto che, come ha creato il problema, saprà anche risolverlo («Internet in sé è fantastica. Questa internet ha ucciso la classe media»). Poi è uscito Average Is Over, in cui l’economista Tyler Cowen immagina un mondo in cui solo un’élite sopravviverà (e prospererà) allo tsunami tecnologico. E infine The Zero Marginal Cost Society, in cui il futurologo Jeremy Rifkin tratteggia un domani-quasi-oggi in cui, grazie o per colpa dell’automazione, il prezzo delle merci crollerà sempre di più, e con esse i salari di chi le produce. Ma torniamo al nostro uomo, matematico, programmatore, polistrumentista, ai suoi dreadlocks inestricabili, alle sue magliette nere extralarge e ai suoi sandali, nella casetta incastonata sulle colline di Berkeley.
Quella che lui denuncia è la «frode contabile di massa» che fa finta che i social network, o i big data di cui tanto si parla, si producano per partenogenesi informatica. «E invece ogni tessera di quel caos di informazioni che Google organizza è prodotta da esseri umani. Sempre. La domanda piuttosto è: quel contributo è messo a bilancio e dunque valorizzato adeguatamente? La risposta è no. E nel frattempo Google diventa sempre più ricco e noi che lo alimentiamo sempre più poveri. Fermiamoci! Pretendiamo che un po’ di quel valore ci sia riconosciuto». Principio sacrosanto, ma dall’applicazione complessa. Procediamo per gradi. Perché non si tratta di un’espropriazione forzosa, quanto di un esercito di volenterosi carnefici che si consegna allo sfruttamento digitale altrui. La parola chiave è schizofrenia. «Ci piace la musica gratis, ma poi gridiamo allo scandalo per l’orchestrale nostro amico che non ha più fondi. Ci eccitiamo per i prezzi online stracciati, e poi piangiamo per l’ennesima serranda abbassata. Ci piacciono anche le notizie a costo zero, e poi rimpiangiamo i bei tempi in cui i giornali erano in salute. Siamo felicissimi dei nostri (apparenti) buoni affari, ma alla fine ci renderemo conto che stiamo dilapidando il nostro valore». Sdoppiamento raccontato benissimo anche da Robert Reich, l’ex ministro del lavoro di Clinton, in Supercapitalismo, dove spiega che, da cittadini, vorremmo salari equi ma da consumatori li barattiamo volentieri con sconti estremi. Come se le due cose non fossero correlate.
Dunque, a partire dall’industria musicale, Lanier allarga la rassegna. Il suo esempio più macroscopico riguarda la fotografia. Dice: «Al suo apice Kodak valeva 28 miliardi di dollari e impiegava 140 mila persone. Instagram, che risponde alla medesima esigenza di condividere foto, aveva 13 dipendenti quando è stata venduta per un miliardo. Ma non è stata valutata così tanto perché quei tredici sono straordinari. Il suo valore nasce invece da milioni di utenti che contribuiscono al network senza essere pagati». Negli anni 80 General Motors impiegava 350 mila persone, oggi Facebook meno di 7.000. E così via. È un’ingenuità credere che i restanti si siano tutti riciclati come web designer. Il grosso si è semplicemente volatilizzato. Il 60 per cento dei posti persi nella recessione, ha calcolato la Federal Reserve di San Francisco, erano della classe media. Thomas Cook, la leggendaria catena di agenzie di viaggio britanniche, ha annunciato che ne chiuderà 195 licenziando 2.500 dipendenti. Ha resistito a tutto, per 172 anni, ma non all’impetuosa crescita di Expedia, Orbitz e simili. Per tacere dei libri. A New York le librerie indipendenti sono state prima decimate dalla grandi catene, tipo Borders e Barnes&Noble. Ora le catene sono fatte fuori da Amazon. Chiuso per Kindle è l’emblematico titolo del saggio di Massimiliano Timpano e Pier Francesco Leofreddi, due librai romani in difficoltà. Nelle settimane scorse a Torino hanno annunciato il forfait cinque importanti librerie del centro. Amazon si può permettere gli sconti che fa per le sue enormi economie di scala e per un flusso di cassa che gli permette di andare avanti con margini bassissimi, nel frattempo schedando il cliente meglio di chiunque altro, per poi vendergli di tutto. Così, se l’anno scorso era il nono più grande venditore del mondo, diventerà il secondo entro il 2018, stimano gli analisti di Kantar Retail. Lanier lo definisce – come Google e Apple – un «server sirena», ovvero gruppi di computer connessi in rete che attraggono grandi numeri di utenti, accumulando e analizzando dati dettagliatissimi sui comportamenti online, senza però riconoscere loro alcun valore economico.
Prendete i traduttori. «Le loro prospettive finanziarie si assottigliano di giorno in giorno. Ma se Google Translate migliora a vista d’occhio lo deve al fatto che il suo algoritmo si ciba di traduzioni esistenti, prodotte da esseri umani, e poi le incrocia con le frasi da tradurre». Presto sarà la volta degli interpreti, a giudicare dal recente annuncio di Skype che sottotitolerà in tempo reale conversazioni in lingue diverse. Anche la torre d’avorio dei docenti universitari è sotto assedio. «Intendiamoci, è bellissimo che un bimbo africano possa seguire online una lezione di Stanford sulla piattaforma Coursera. Però, se un singolo docente può servire una classe virtuale di diecimila studenti, cosa resterà da fare per i suoi colleghi meno richiesti?». La rete polarizza il mercato e lo spinge verso un modello winner takes all. Poche star prendono quasi tutto e alla classe media restano fette sempre più striminzite. Schizofrenia, oppure miopia: «Gli atenei più prestigiosi, che sin qui hanno goduto di rette astronomiche, fanno a gara a buttarsi in rete. Nel breve periodo faranno qualche soldo anche lì, ma nel lungo bruceranno la terra sotto i loro piedi. Lo stesso vale per gli studenti online, cui sembrerà di fare un affare a seguire i corsi quasi gratis sul web. Ma poi non potranno più fare la carriera universitaria perché non ci saranno più i soldi per i loro stipendi». È un caso di autocannibalismo differito.
Il discrimine, per Lanier, è semplice: «Un lavoro è tale quando dai suoi proventi si può crescere un figlio. Perciò non ci casco quando ribattono alla tesi che internet ci impoverisce citando le star che YouTube avrebbe creato. Per una Jenna Marbles che, da zero, è diventata una celebrità insegnando alle ragazze a truccarsi, ce ne sono milioni che non battono chiodo. A forza di sentir ripetere questa bugia mi sono messo a censire i musicisti hip hop che sbarcano il lunario grazie alla rete. Nel mondo ne ho trovati 250. Un’inezia rispetto ai posti distrutti».
Ha fatto discutere Uber, l’applicazione per prenotare un’auto via cellulare. I tassisti l’hanno presa come una dichiarazione di guerra. A Milano sono arrivati alle mani con un suo conducente. «Capisco le esigenze dei clienti. Ma la licenza dei tassisti, a volte pagata cara, era uno di quegli argini – come l’ordinariato per i professori o, più in generale, i sindacati – a difesa di categorie professionali. Internet li sta smantellando tutti, rendendo ognuno più esposto». E Uber è niente in confronto a quando le Google Car sostituiranno tassisti e camionisti, altri tipici mestieri-ponte di chi, immigrati compresi, aspira alla middle class. La lista è infinita. Conoscerete Airbnb, per cui un privato può affittare una stanza. Ci piace, la usiamo, ma se fossimo albergatori? Previsione di Lanier: «L’efficienza di internet potrebbe distruggere il settore alberghiero così come Napster e compagnia hanno distrutto il mercato discografico!»
I proprietari dei computer più potenti si affermeranno come l’unica élite rimasta. Dimenticate per un attimo il web e concentratevi sulla finanza e l’high frequency trading, per cui il 60-70 per cento delle transazioni vengono effettuate in nanosecondi dagli algoritmi. «Più i costi delle macchine si abbassano» osserva Lanier «più le persone sembrano costose. Una volta stampare un giornale era caro, quindi pagare i giornalisti per riempirne le pagine sembrava una spesa naturale. Quando le notizie diventano gratuite il fatto che qualcuno voglia essere pagato comincia ad apparire irragionevole». Così arriva Narrative Science, un software assembla-articoli, e Forbes lo recluta per redigere le brevi finanziarie. Oppure Warren (omaggio al miliardario Buffett), un programma che comincia a prendere il posto degli analisti di Borsa meno esperti. E poi TurboTax, che toglie il pane di bocca ai commercialisti che ci fanno il 740. Oppure quei programmi che riassumono per gli avvocati migliaia di pagine di documenti. E ancora, e ancora. Entro il 2025, stima McKinsey pensando all’America, gli aumenti di produttività informatica nelle aree dei «lavori della conoscenza» potrebbero rendere superfluo il 40 per cento dei posti attuali.
Dati italiani scarseggiano. Si sa che il commercio elettronico cresce di quasi il 20 per cento all’anno da vari anni. Nel frattempo le vie dello shopping cittadino si tappezzano di «affittasi». Correlation does not imply causation, il fatto che una cosa venga dopo un’altra non implica che ne sia l’effetto, avvertono gli statistici. Però. Chiedo a Maurizio Franzini, economista alla Sapienza di Roma e uno dei massimi esperti di diseguaglianze, se possiamo sentirci al riparo. «Direi proprio di no. Il cambiamento tecnologico dominato dal capitale è un fenomeno globale. E il capitale oggi significa computer, software, robot, che spesso permettono di servire mercati sterminati con pochissimo lavoro. Chi possiede le versioni più potenti di quel capitale e molti di coloro che con esso lavorano, saranno sempre più ricchi. La classe media sta già pagando il prezzo più alto di questa transizione». A depauperarla ha cominciato la globalizzazione, delocalizzando verso Paesi con manodopera a buon mercato. Poi la finanza, che schiaccia i costi fissi (stipendi, soprattutto) per far volare i titoli. Oggi l’automazione, nelle sue varie declinazioni informatiche. Come se ne esce? L’abitante dell’antro ha una sua proposta. Dice: «Per far emergere una nuova classe media bisogna rompere con l’idea insensata dell’informazione gratis. E creare un sistema di micropagamenti. Non solo per retribuire le merci che ora si scaricano free, ma anche chiunque lasci una traccia misurabile in rete. Di cui resterà proprietario». Un like su Facebook, un tweet ampiamente rilanciato, una ricetta condivisa online, ma anche la risposta a chi chiede come si ripara un mobiletto o il consiglio di un’infermiera su come cambiare la padella a un malato. Se diventano conoscenza hanno un valore, dunque devono avere un prezzo. «Anche se mi piacerebbe che tutti pagassero per la musica che ascoltano, non pretenderò che lo facciano fino a quando non ci sarà reciprocità». Se ti piace essere pagato, comincia con il pagare gli altri. È il vangelo secondo Jaron. Sì, ma in pratica? «Si dovrebbe modificare l’architettura del web, recuperando l’idea originaria di Ted Nelson. Nei primi anni 60 l’inventore dell’ipertesto immaginò una rete con link bi-direzionali, in cui chi ci cliccava poteva sempre risalire al punto di partenza». Chiunque riutilizzasse qualcosa prodotto da voi così dovrebbe citarvi. Riconoscendovi una parte dei suoi guadagni. In teoria non fa una piega, in pratica non sarà una passeggiata di salute. Lanier conosce benissimo i limiti di applicabilità della sua idea: «Stiamo ragionando su astrazioni. Credo che fondamentale sia rompere l’incantesimo in cui siamo stati intrappolati sino a oggi. Fatto quel passo, la soluzione si troverà». All’Università di Pavia l’economista Andrea Fumagalli parla di reddito minimo che retribuisca le varie attività cognitive-relazionali. Resta il problema che, se anche remunerassimo chi lascia tracce digitali, non compenseremo tutti quelli che hanno perso un lavoro a causa dell’informatizzazione. Il Nostro: «I mestieri del mondo fisico non spariranno. Assistenti per gli anziani, massaggiatori, lavoratori di prossimità: le nicchie si moltiplicheranno. Più avanzati sono i nostri gadget elettronici, più costosi diventeranno i prodotti artigianali. La virtualità trasforma la fisicità in qualcosa di molto prezioso». Numeri più piccoli, però salari più alti per chi intercetta i nuovi bisogni.
Quando Hans Magnus Enzensberger, dando il benvenuto al nuovo secolo, parlava del tempo libero come il lusso ultimo non sapeva ancora quanto avesse ragione. Chi si accolla la fila alla posta per voi. O vi porta a spasso il cane. O sovrintende a domicilio alle vostre flessioni. Sono solo le prime banalità di un catalogo tendenzialmente inesauribile di deleghe a pagamento. E la stampa 3D, così glamour, in che casella la mette? Nel libro l’aveva liquidata come «la mania più di moda tra accademici ed esperti». Dal vivo le dà una chance: «Ci vorranno molti meno addetti che nella manifattura classica, ma consentirà una maggiore varietà di prodotti. Quindi meno operai e più designer». A patto di riconvertire i primi nei secondi. Fa l’esempio del poggiamento per i suoi violini. Ne ha comprati decine, ora sepolti in una scatola di plastica, e nessuno lo soddisfa a pieno («Forse quando me lo stamperò da solo…»). La pars construens di ogni rivoluzione è sempre quella più laboriosa. E vaga. C’è uno straordinario monologo di Gaber in cui Giotto da Bondone si interroga sul colore del cielo in un momento in cui i bizantini lo dipingevano d’oro. È sempre difficile sfidare il pensiero unico. Ma il pittore del Mugello fa un gesto eversivo: «Gli casca l’occhio sul cielo e fa: “Boh, a me mi sembra azzurro. Maremma maiala, il cielo è azzurro!». Anche Jaron Lanier ha alzato la testa e gli si è aperto un altro orizzonte.