Vittorio Zucconi, la Repubblica 4/7/2014, 4 luglio 2014
TUTTI I MILIARDI DELLA “CLINTON CORP” COSÌ È NATO IL TESORO DI BILL
& HILLARY –
WASHINGTON
C‘è una grande muraglia che sbarra la strada di chi sogna la Casa Bianca, una barriera alta già 5 miliardi di dollari e in continua crescita, sulla quale vegliano le sentinelle più ricche della politica americana: Bill e Hillary Clinton.
Chiunque, fra i Repubblicani o i Democratici avesse l’intenzione o la tentazione di incamminarsi sul sentiero che porta alle elezioni del novembre 2016, sa che per avere qualsiasi chance deve scavalcare, abbattere o demolire quella muraglia di dollari. È un forte che la “Clinton Corporation” ha eretto da quando Bill lasciò la scrivania e i boudoir della residenza presidenziale nel 2000, con una parcella legale di 6,5 milioni di dollari e niente altro in tasca che il vitalizio di 197mila dollari annui lordi che gli ex capi di Stato americani percepiscono, dunque formalmente in bancarotta, come ha detto l’ex First Lady accolta dal sarcasmo generale.
Ma era vero. E tanto più sensazionale appare l’enormità del tesoro dei Clinton oggi ripensando a quel debito, che Bill ha finito di pagare agli avvocati che lo salvarono dalla destituzione e lo difesero durante il processo di impeachment, se si rammenta che lui è un ex avvocato radiato dall’Ordine per indegnità e dunque impossibilitato a esercitare. E lei, avvocato che aveva interrotto la professione sposando il futuro governatore dell’Arkansas e poi Presidente, aveva scelto un seggio senatoriale pagato 147mila dollari l’anno e poi la poltrona di segretario di Stato, che vale 186mila dollari. Ottime retribuzioni, ma non cifre che possano spiegare come oggi, 14 anni dopo, l’ex studiolo legale “Billary”, come era stato ironicamente battezzato, sia divenuto una corporation con 5,2 miliardi nella Fondazione a loro nome e oltre 200 milioni di dollari nei portafogli privati.
Se qualcuno dovesse subito pensare “furto”, all’italiana, e immaginare “politometri” punitivi, si disinganni subito. Nel tesoro dei Clinton tutto, a oggi, appare trasparente e verificato, perché la elezione di lei a senatrice di New York e poi la nomina a Segretario di Stato l’ha obbligata, per legge, a rendere pubblici tutti i redditi. La loro fortuna privata, e la rocca di dollari costruita nella Fondazione che sarà l’eventuale tesoro di guerra per la battaglia presidenziale, nasce dai diritti letterari sulle memorie: 12 milioni di dollari per quelle di lui, oltre 10 per quelle di lei, nei due libri pubblicati. Ma quello è solo l’antipasto, il minimo necessario per saldare le parcelle dei famelici avvocati.
Sono i discorsi pubblici, davanti ad associazioni, banche, sindacati, davanti a chiunque sia disposto a versare almeno mezzo milione di dollari per l’emozione di vedere dal vivo e di stringere la mano a Bill e i 250mila minimi necessari per ascoltare Hillary, a gonfiare il portafoglio personale della coppia. Per un discorso sull’energia tenuto a Praga, lui ha sparecchiato ai generosi uomini d’affari cechi 1,2 milioni. Mentre lei, più fresca di esperienza e di ricordi geopolitici e soprattutto più ricca di promesse future, è pagata meno, ma oggi è assai più richiesta del coniuge.
Ma se questa è ricchezza privata, resta poca cosa rispetto alla marea di donazioni che le grandi aziende, banche, sindacati, lobbies hanno rovesciato nella Fondazione Clinton. Mai in esclusiva — perché i super-elemosinieri della politica non puntano tutte le loro fiches su un numero solo — ma con una evidente predilezione per la “Clinton Corp”. Soprattutto Wall Street ha spalancato i forzieri. Dopo la mezza delusione del secondo Obama, che i “big” della finanza avevano visto male nel secondo giro sulla giostra elettorale per quella nuova regulation imposta dopo il crac del 2008, Goldman Sachs più di tutte, poi JP Morgan Chase, Citibank, Bankamerica e le altre hanno ritrovato il proprio idolo e benefattore, quel Bill Clinton che nel 1999 abbatté la legge barriera, il Glass-Steagall Act del 1933, che impediva alle banche commerciali le speculazioni finanziarie.
Non sono più i sindacati, né le industrie manifatturiere e certamente non i versamenti individuali online, tanto celebrati ed esagerati nella mistica della vittoria di Obama, i finanziatori della Clinton Corp., ma Wall Street. In quella New York dove Hillary, che avrebbe potuto scegliere di farsi eleggere in California o nel Maine, scelse come proprio collegio. Sapendo che in quell’isola dal nome indiano pulsa il cuore del big business americano.
Può essere questa, la dipendenza dalle generosità della grande finanza resa ormai senza limiti dalla Corte Suprema che ha equiparato gli assegni alla espressione della libertà di pensiero e di opinione, la crepa nella muraglia Clinton. Anche i repubblicani succhiano ingordamente dal biberon delle banche e dei finanzieri, ma da loro è ideologicamente atteso, e corretto, che ciò avvenga. Più difficile sarà, per Hillary, spiegare all’uomo e alla donna della middle America, al metalmeccanico di Detroit che sta ancora pagando il conto della follia finanziaria 2008 e che annaspa con mutui impagabili, alla cassiera del super shopping center discount che non riesce neppure ad avere un contratto sindacale, come possa lei, la darling di Wall Street, vegliare sugli interessi di coloro che la finanza quotidianamente spenna.
Ma se la mistica del crowdfunding del finanziamento popolare abilmente sfruttata dalla campagna di Obama (che ebbe una quota di piccoli contributi diretti di fatto identica a quella che prima di lui Bush aveva raccolto) sarà riesumata da lei per democratizzare la propria immagine, e il socio Bill farà sfoggio della propria ancora inimitabile capacità di seduttore anche di folle, il fatto rimane che, senza montagne, mura, catapulte, arieti di soldi, nessuno può assediare o difendere il castello bianco nel tempo del finanziamento libero e privato della politica. Jeb Bush, l’ultimo hurrah del clan dei due presidenti, ha già in cassa 1 miliardo e 250 milioni, ma deve crescere. Quei due miliardi di dollari che Obama e Romney consumarono nel duello del 2012 sono destinati a diventare almeno tre, se non quattro, nel 2016. E dagli spalti della loro Corporation, con pentoloni di dollari bollenti da versare sugli assalitori, Bill e Hillary sorridono.
Vittorio Zucconi, la Repubblica 4/7/2014