Francesco Grignetti, La Stampa 4/7/2014, 4 luglio 2014
L’UOMO CHE MANEGGIÒ 200 MILIARDI
«Ho perso un fratello». È affranto Gennaro Mokbel, il «nero», l’affarista, il geniaccio che aveva inventato la truffa miliardaria (in euro) del finto traffico telefonico e che a un certo punto sognò di farsi capopartito e grande finanziere. Distrutto dalla notizia dell’agguato a via della Camilluccia, Mokbel è in lacrime. Gli hanno ucciso «il pupillo».
All’apice del successo, quando i soldi correvano, l’oro e i diamanti pure, la banda aveva agganciato la mafia calabrese ed era riuscita persino a far eleggere un «suo» senatore con i voti degli emigrati a Stoccarda, Gennaro Mokbel non ebbe dubbi: era Silvio Fanella, l’amico di sempre, il ragioniere socio in affari di sua sorella Lucia, l’unico di cui fidarsi per far scomparire i soldi.
E questo faceva Fanella, secondo la sentenza che l’aveva condannato a 9 anni di carcere: riciclaggio internazionale, intestandosi fittiziamente i beni della banda in Italia e all’estero, utilizzando gli spalloni per far uscire e rientrare i milioni dall’Italia, acquisendo immobili, attività commerciali, preziosi.
La fine del “sogno” di Mokbel, però, si era lasciata dietro una scia di recriminazioni e odii. Era l’agosto del 2012: i carabinieri di Potenza scoprirono, del tutto casualmente, intercettando le telefonate di un piccolissimo pesce locale, che tre giovani malviventi lucani erano stati reclutati nel carcere di Frosinone da un ex della banda Mokbel per rapire e dare una lezione a Fanella. Il tentativo di rapimento - che alla luce di quanto accaduto ieri a Roma potrebbe acquisire una luce diversa - fu seguito dagli investigatori in tempo reale. I carabinieri ricostruirono che il terzetto dei lucani era teleguidato da tal Roberto Macori, un ex della corte Mokbel, per sequestrare Fanella, portarlo in campagna, riempirlo di botte e infine tenerlo in custodia finchè non fossero usciti fuori i soldi.
Già, perché Macori accusava Fanella di essersi tenuto in tasca 5 o 6 milioni di euro nel “lavoro” di riciclatore. Soldi della banda. O forse soldi che Macori riteneva suoi.
Quel tentato rapimento dell’agosto di due anni fa, quando sia Macori che Fanella erano stati appena scarcerati dopo una lunga custodia cautelare, finì nel nulla perché il giorno in cui il gruppo si presentò sotto casa di Fanella, c’era un’auto civetta dei carabinieri di troppo. I tre capirono e presero il largo. Ci sono però intercettazioni inequivocabili: «Lo devo menare e devo stare insieme con loro quando vanno a prendere i soldi», dice il capo ai due gregari.
Ora, perché Roberto Macori ce l’avesse tanto con Fanella saranno le indagini a chiarirlo. Tutto ruota attorno ai soldi, comunque. Soldi sporchi. La sentenza di primo grado, come ricorda amaramente Fastweb, che da questa vicenda ha rischiato di uscire schiantata, ha ricostruito così i meccanismi della clamorosa truffa: «La società è stata vittima di una frode fiscale. È stato infatti dimostrato che Fastweb ha sempre correttamente corrisposto l’Iva dovuta. E un’associazione criminale, attraverso l’uso fraudolento di complesse transazioni, si è appropriata di questi soldi».
All’epoca, i magistrati dissero che si trattava forse della più gigantesca truffa nella storia d’Italia. Quantificarono in 2 miliardi di euro la sottrazione alle casse dello Stato. Forse esageravano un po’. Della montagna di euro spariti, però, è vero che solo qualche briciola è stata ritrovata e restituita. Il resto, e sono decine di milioni, manca ancora all’appello. È quello il vero tesoro della banda, di cui Fanella fino a ieri mattina era tesoriere, custode, memoria storica. Lui quello che aveva accesso alle cassette di sicurezza di Harrods, a Londra. Romano verace, lo chiamava «il cucuzzaro». Una volta, per vantarsi con i complici, disse: «A Pino! So’ professionista de sordi. Penso de ave’ contato nella mia vita qualcosa come duecento miliardi».
Francesco Grignetti, La Stampa 4/7/2014