Fabrizio Gatti, l’Espresso 4/7/2014, 4 luglio 2014
ESODO SENZA FINE
Tre milioni di persone hanno cercato scampo negli ultimi mesi in Libia. E cercare salvezza in una terra in cui ogni giorno governativi, milizie, islamisti, banditi si scambiano pareri a colpi di mitra, attentati e rapimenti eccellenti, dà l’idea della disperazione. Tre milioni di persone senza documenti, secondo la stima del ministero del Lavoro libico, fuggite dalla Siria, dall’Eritrea, dalla Somalia e da Paesi ancora assenti dall’immaginario della guerra globale, ma con ampie regioni di instabilità, come Mali, Niger, Nigeria, Camerun, Sudan, Congo. Questi sono i numeri sull’orizzonte dell’operazione di salvataggio Mare nostrum decisa dal governo italiano: perché a quei tre milioni di profughi, la Libia non ha nulla da offrire e il limite alle partenze è dato in questo momento soltanto dalla mancanza di imbarcazioni o di soldi per pagare la traversata. Così se da gennaio l’Italia ha già superato il record dei 61 mila profughi raggiunto nel 2011, l’anno d’inizio delle rivoluzioni arabe, se non si esclude che a fine 2014 si tocchi la cifra mostruosa di 100 mila arrivi dal mare, potremmo essere soltanto all’inizio del peggio. Una pressione senza precedenti sulla rete di assistenza, già scarsa, di prefetture e Comuni. Mentre il governo italiano sta silenziosamente portando avanti un piano per rifornire di motovedette la difesa libica, già accusata di avere sparato contro i pescherecci carichi di profughi e avere provocato il naufragio dell’11 ottobre scorso.
Oltre ai morti delle ultime ore, alle immagini dei sopravvissuti che abbracciano i loro bambini, sono i numeri a smascherare la lontananza dell’Unione europea da quanto sta accadendo. Cominciamo da Frontex, l’agenzia di polizia fondata dieci anni fa e citata più volte dal premier Matteo Renzi, dal ministro dell’Interno, Angelino Alfano, e soprattutto dalle linee guida al nuovo Europarlamento dettate dal Consiglio europeo per i prossimi cinque anni: «Frontex, in quanto strumento della solidarietà europea nel settore della gestione delle frontiere», è scritto nelle conclusioni dei rappresentanti dei 28 governi che si sono riuniti a fine giugno, «dovrebbe rafforzare la sua assistenza operativa, in particolare per sostenere gli Stati membri esposti a forte pressione alle frontiere esterne, avvalendosi pienamente del nuovo sistema europeo di sorveglianza delle frontiere Eurosur». Parole. Come se l’Europa continuasse a vivere nella sua fortezza protetta dai dittatori amici Muhammar Gheddafi, Ben Ali, Hosni Mubarak e Bashar Assad. Quel mondo è finito. Ma sapete a quanto ammonta lo stanziamento per il 2014 assegnato da Bruxelles a Frontex per controllare tutti i confini dell’Unione? Sono 89 milioni 197 mila euro. Poco più di quanto hanno incassato i trafficanti libici ed egiziani in appena sei mesi: cioè 97 milioni 600 mila dollari Usa al costo a persona di 1.600 dollari, la valuta richiesta all’imbarco. Più il milione e mezzo pagato dal migliaio di profughi che da ottobre a oggi sono annegati durante il viaggio. Un incasso per i criminali che al cambio supera i 75 milioni di euro. Con centomila profughi, i trafficanti potrebbero ricavare quest’anno più di 150 milioni di euro soltanto dalla rotta che porta in Sicilia. Grecia, Spagna, i riscatti pagati dai familiari dei profughi rapiti e le piste che attraversano il deserto del Sahara e i confini mediorientali sono ulteriori fonti di guadagno per diversi miliardi di dollari. Basta considerare la catastrofe siriana: «I più poveri sono rintanati sotto le bombe. I profughi in movimento appartengono soprattutto alla classe media. La Siria era un Paese ricco. C’è chi è riuscito a mettere in salvo i risparmi, chi ha venduto l’auto, chi la casa prima che venisse distrutta. Quello che è in atto», osserva una fonte diplomatica a Tripoli, «è un colossale trasferimento non solo di persone, ma di ricchezze dalle famiglie alle bande criminali. In cambio della sopravvivenza. La guerra è anche questo».
Il budget di Frontex è nulla se confrontato con l’impegno finanziario messo in campo dal governo italiano per la nostra Marina militare. Impegno deciso unilateralmente all’indomani delle tre stragi dell’autunno scorso: oltre 640 morti il 30 settembre, il 3 e l’11 ottobre. Ecco le cifre: 9 milioni al mese per l’operazione Mare nostrum, 20 milioni per il Fondo nazionale per l’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati e 190 milioni per il Fondo del ministero dell’Interno per far fronte all’emergenza. Un totale di 318 milioni, in parte finanziati con 90 milioni dal Fondo rimpatri e con 70 milioni dalle entrate Inps versate dagli immigrati per la regolarizzazione o il rinnovo dei permessi di soggiorno.
Pur essendo in prima linea nel soccorso in mare, l’Italia non ha però rinunciato al progetto di addestrare e armare la Guardia costiera libica sostenuto dall’Unione europea attraverso la missione «Eubam», il piano di sicurezza e difesa comune per la sorveglianza dei confini. Lo rivela l’ambasciatore e inviato speciale dell’Italia in Libia, Giuseppe Buccino Grimaldi, in una intervista al quotidiano "Libya Herald": «Ci sono dieci motovedette in via di consegna alla Libia, sette finanziate dall’Italia e tre dall’Ue», spiega l’ambasciatore a Tripoli: «Capiamo che le condizioni all’interno della Libia possono non essere le migliori in questo periodo. Ma noi chiediamo fermamente alla Libia di intraprendere più azioni. Meno del 10 per cento dei migranti che partono per l’Italia, sono fermati dalle autorità libiche». Una richiesta che può nascondere molti rischi. Non bisogna dimenticare che proprio l’equipaggio di una motovedetta libica, la notte dell’11 ottobre forse interpretando alla lettera le richieste di fermezza arrivate in quei giorni dall’Europa, ha sparato raffiche di mitra contro un peschereccio con 500 profughi siriani. I fori provocati dai proiettili sotto la linea di galleggiamento hanno poi fatto rovesciare lo scafo, trascinando in fondo al mare più di 260 passeggeri, tra cui una sessantina di bambini.
La prima settimana di giugno la Marina libica ha fermato tre gommoni davanti alla costa di Gasr Garabulli, a Est di Tripoli. I militari della Guardia costiera hanno riportato a terra 385 persone. Operazione che si è aggiunta a molte altre precedenti. Lunedì 9 giugno il portavoce della Marina, colonello Ayoub Qasem, ha annunciato la disfatta: «Siamo sopraffatti dal numero di stranieri in arrivo dall’Africa e dall’Asia. Li scarichiamo sul molo, ma non abbiamo né acqua né viveri per assisterli». I militari libici si lamentano anche perché il ministero dell’Interno non sta dando nessun aiuto. Ma è impossibile immaginare un qualunque piano di soccorso quando per settimane a Tripoli si sono insediati contemporaneamente due governi. E quanto è appena accaduto in Siria e in Iraq, con la proclamazione del califfato, fa prevedere che la prossima a precipitare di nuovo nel caos potrebbe essere proprio la Libia.
Tre milioni di stranieri sono il 50 per cento della popolazione. Un record mai raggiunto nemmeno negli anni del regime del colonnello Gheddafi. Il dato è stato fornito dal ministero del Lavoro di Tripoli all’organizzazione umanitaria «Human rights watch» che l’ha pubblicato nel suo rapporto 2014 sui centri di detenzione in Libia, finanziati dall’Italia e dalla Ue. «La situazione politica in Libia può essere dura», dice Gerry Simpson, responsabile della ricerca: «Ma il governo non ha scuse per torture o altre deplorevoli violenze da parte delle guardie». Racconta un ragazzo somalo, 27 anni, intervistato nel centro per migranti di Tomeina: «Ho visto i guardiani appendere persone a testa in giù ad un albero fuori della porta principale e poi percuoterli e frustarli sui piedi e sulla pancia».
La presenza in Libia di tre milioni di stranieri senza documenti è comunque difficile da verificare. Ma è giustificata dall’enorme numero di profughi in movimento intorno al Mediterraneo, dalla Grecia alla Spagna. La catastrofe in Siria, prima di tutto, con 6,5 milioni di sfollati bloccati all’interno del Paese e 2 milioni 900 mila censiti dalle Nazioni unite all’estero: in Libano (un milione 117 mila rifugiato su una popolazione di 4 milioni 227 mila abitanti), in Turchia (789 mila), in Giordania (604 mila), Iraq (225 mila), Egitto (138 mila). Poi la fuga costante di eritrei e somali dai campi profughi in Sudan e la radicalizzazione di nuovi conflitti in Mali e Nigeria.
L’estrema destra, con il leghista Matteo Salvini in testa, sta accusando la Marina militare di avere contribuito al boom di arrivi grazie ai soccorsi. E quindi anche al numero di morti. Non è così, dice Christopher Hein, direttore del Consiglio italiano per i rifugiati, «gli sbarchi hanno cominciato ad aumentare ai primi di luglio, molto prima di Mare nostrum». Per dare ragione a Hein e alla Marina, basterebbe vedere cosa sta accadendo con i respingimenti nel mare Egeo dove lo scorso inverno la guardia costiera greca si è ostinata a trainare un barcone in Turchia, facendolo affondare e provocando così un’altra strage di profughi siriani. Oppure in Spagna, dove il 18 giugno nell’enclave di Melilla la Guardia civil ha lasciato entrare sul proprio territorio una squadra di militari marocchini che hanno ucciso a bastonate quattro migranti inermi scappati al di qua della rete di confine. Dunque, qual è la soluzione preferita dalla civilissima Europa?
Al nostro governo viene rimproverato che centomila profughi in un anno sarebbero ordinaria amministrazione rispetto alle 126 mila domande di asilo presentate in Germania nel 2013, 65 mila in Francia, 54 mila in Svezia, 30 mila in Gran Bretagna. Contro le 28 mila richieste in Italia. In dieci anni il nostro Paese ha comunque accolto più di due milioni di immigrati irregolari, grazie a diverse sanatorie: si è così passati dal milione 994 mila stranieri residenti nel 2004 (3,4 per cento della popolazione) ai 4 milioni 387 mila del 2013 (7,4 per cento). Una pratica mal vista dalla burocrazia di Bruxelles. La figura di profugo economico non è infatti tutelata in Europa: se uno fugge dalla guerra va accolto, ma se scappa da una regione affamata dalla povertà, va cacciato. Il premier Renzi ha sei mesi di presidenza europea per farsi capire. Se fallisce, l’operazione Mare nostrum forse si concluderà. Ma, finché ci sono guerre e profughi, i trafficanti al di là del mare continueranno a fare quello che hanno sempre fatto.