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 2014  luglio 04 Venerdì calendario

LA MACCHINA DEI DOSSIER

Bertone, Bisignani, Santanchè... «Fu Alessandro Sallusti a dirmi che la fonte della velina su Dino Boffo era il cardinale Tarcisio Bertone, che l’aveva data a Luigi Bisignani e Daniela Santanchè. Poi era arrivata a Sallusti. È questo quello che ho raccontato ai magistrati. Davanti ai pm si deve dire la verità». Vittorio Feltri non ci pensa un secondo a rispondere alla domanda, come se avesse voluto vuotare il sacco da un pezzo, e in un’intervista esclusiva conferma a "l’Espresso" quello che lui stesso confidò due anni fa a un giudice della procura di Napoli, quando raccontò per la prima volta l’origine del finto scoop che costrinse l’allora direttore di "Avvenire" alle dimissioni.
Nel 2012, infatti, il pm Gianfranco Scarfò chiamò Feltri in gran segreto nei suoi uffici sotto il Vesuvio, per interrogarlo come persona informata sui fatti. Il magistrato stava cercando di capire chi era entrato nel casellario giudiziario per cercare informazioni su Boffo, e chiese così al giornalista quale fosse la genesi della notizia infamante pubblicata il 28 agosto 2009 sulla prima pagina de "Il Giornale", nella quale il direttore del quotidiano cattolico veniva descritto come "noto omosessuale attenzionato dalla polizia". «Dissi al pm che la catena era Santanchè, Bisignani, Bertone... è quello che mi fu detto da Sallusti, quando lui era condirettore», ricorda Feltri. «Dopo, non so se fosse vero... Io ero il direttore, e mi sono fidato senza pormi tanti problemi. Mi sembrava che fosse assolutamente credibile. Però io non so se posso dirvi queste cose, il magistrato mi chiese di non raccontarle a nessuno... Anche se dopo tanto tempo, forse, si possono dire».
A cinque anni di distanza dalla pubblicazione della velina che distrusse la carriera di Boffo e annichilì quella parte della Chiesa avversa alla morale libertina dell’allora premier Silvio Berlusconi, "l’Espresso" è così in grado di ricostruire la vicenda, indicando per nomi e cognomi presunti mandanti, complici e esecutori materiali dell’assassinio mediatico di Dino Boffo, una delle prime vittime di quella "macchina del fango" che per anni è stata usata dal potere berlusconiano per contrastare i nemici politici, i giudici non allineati e gli avversari considerati pericolosi dagli uomini vicini al tycoon.
Andiamo con ordine, partendo dall’estate del 2009. Berlusconi è nell’angolo, schiacciato dagli scandali di Noemi Letizia e di Patrizia D’Addario, la prostituta barese che registrò i suoi incontri con l’allora Cavaliere nel lettone regalato da Putin. Per la Chiesa il premier è indifendibile, e il giornale della Conferenza episcopale italiana non può tacere: Boffo parla una prima volta di «uno scenario di desolazione che non convince e non piace al paese reale», poi firma un editoriale in cui ammette «disagio, mortificazione e sofferenza» causata dalle «tracotante messa in mora di uno stile sobrio». Una settimana dopo, il 19 agosto, Mario Giordano viene fatto fuori dalla direzione del "Giornale", il quotidiano della famiglia Berlusconi: i tempi sono duri, qualcuno deve fare il lavoro sporco, e l’ex "Grillo Parlante" del "Pinocchio" di Michele Santoro è considerato troppo morbido.
Berlusconi richiama a Via Negri il suo giornalista preferito, Feltri, che intanto era approdato a "Libero". Uno tosto, capacissimo in battaglia di colpire duro e veloce, con o senza guantoni. A nemmeno dieci giorni dal suo insediamento il nuovo direttore fa capire di che pasta è fatto: il 28 agosto spara in prima pagina la devastante notizia su Boffo. Nell’editoriale e nel servizio di cronaca il giornalista viene accusato di essere un molestatore, nonché «un noto omosessuale già attenzionato dalla Polizia di Stato per questo genere di frequentazioni». Feltri pubblica due documenti. Uno, autentico, riguarda una faccenda vecchia (già raccontata da un blog di Mario Adinolfi nel 2005, dalla "Nuova Agenzia Radicale" nel 2006 e da "Panorama" nel 2008) che "Il Giornale" vende come scoop nuovo di zecca: «il supermoralizzatore Boffo» nel 2004 è stato querelato da una giovane ragazza di Terni (di nome Anna B.) per molestie telefoniche, una vicenda che si concluse con una multa da 516 euro e un decreto penale di condanna. Il secondo documento è una velina anonima, mai allegata agli atti del Tribunale di Terni, in cui Boffo viene indicato, appunto, come un omosessuale «attenzionato dalle forze dell’ordine». "Il Giornale" la definisce un’informativa di polizia, e azzarda una tesi: Boffo avrebbe avuto una relazione non con la giovane Anna, ma con il suo fidanzato.
La lettera è un falso totale, una calunnia che Feltri spaccia per notizia da prima pagina. E dà il via a una strategia della disinformazione messa in moto dai media berlusconiani, un meccanismo basato sull’inganno e sul raggiro, con l’intento finale di manipolare l’opinione pubblica e distruggere la credibilità di chi osa intralciare la marcia triuonfale del Cav. Una tecnica che, come spiega bene lo studioso Manuel Castells, gli americani chiamano "character assassination", che porta alla distruzione della reputazione di un individuo considerato scomodo o ostile.
Stavolta il lavoro dei "rat fucker" (come gli americani chiamano gli esperti specializzati nel raccogliere informazioni utili a screditare avversari) parte da lontano. La velina è infatti il capitolo di un minidossier su Boffo che qualcuno aveva già fabbricato e mandato in busta anonima a decine di vescovi italiani qualche mese prima che venisse pubblicata su "Il Giornale". Il materiale diffamatorio conteneva sia la fotocopia del decreto penale di condanna già pubblicato un anno prima da "Panorama" (quando, va ricordato, la notizia non fece alcuno scalpore) sia la lettera anonima intestata a "Sua Eccellenza" piena di allusioni, errori grammaticali e falsità. Se i vescovi non la terranno in alcun conto, tanto che monsignor Domenico Mogavero la cestinò valutandola «una forma di avvertimento di tipo mafioso», qualche manina in Vaticano decide di usarla a suo vantaggio, e fa arrivare i documenti a Milano, a Via Negri, sede del giornale dei Berlusconi. Secondo Feltri la manina aveva all’anulare un anello cardinalizio. Quello di Bertone.
«C’era una fotocopia dove si raccontavano certi fatti, io ho dato un’occhiata», ammette Feltri a "l’Espresso". «Quando ho saputo che la fonte era quella ovviamente mi sono fidato. Poi non lo so... visto quello che è successo facevo bene a non fidarmi. È facile dirlo dopo, ma quando il tuo condirettore ti viene a dire una cosa del genere, non è che metti in dubbio la sua parola. Nel pomeriggio mi hanno detto che era tutto tranquillo, tutto normale. Io ho dato il via alle pubblicazioni senza la minima preoccupazione. Ho detto al magistrato che Sallusti mi disse che l’origine di quella velina era Bertone. Non potevo fregarmene di questa roba, mi ha detto che la fonte, la provenienza era quella. Mi sono fidato». Oltre a Bertone, Feltri (che al "Foglio" spiegò che la velina gli era arrivata «da una personalità della Chiesa della quale ci si deve fidare istituzionalmente») ha dichiarato al magistrato che Sallusti gli fece anche i nomi di Bisignani e Santanchè, "passacarte" per conto del prelato. Una volta davanti al magistrato, però, l’attuale direttore de "Il Giornale" ha negato in toto la versione del suo vecchio maestro.
La storia di Feltri, di sicuro, è credibile. Nell’agosto 2009 tra Bertone e Boffo non corre buon sangue. Il segretario di Stato mal sopportava la cordata dell’ex capo della Cei Camillo Ruini, di cui Boffo, cresciuto nell’Azione cattolica, era l’esponente laico più rappresentativo. I tentativi per disarcionarlo dalla direzione erano stati molti, ma infruttuosi. Non era una questione personale: da braccio destro di Benedetto XVI, il cardinal Bertone ha sempre tentato di ridimensionare il potere dei vescovi e quello dei loro referenti: «È il segretario di Stato», scrisse in una irrituale lettera ad Angelo Bagnasco, successore di Ruini, «a dover mantenere i rapporti con le istituzioni politiche italiane». Non è un caso, dunque, che Boffo cercasse il colpevole tra i fedelissimi del segretario di Stato tanto da indicare - in una lettera riservata a monsignor Georg Gaenswein pubblicata da Gianluigi Nuzzi nel libro "Sua Santità" - la fonte di Feltri in Gian Maria Vian, direttore dell’Osservatore Romano assai vicino al cardinale piemontese, e in Bertone stesso il presunto «mandante morale».
Se i rapporti tra Boffo e Bertone sono ai ferri corti, nell’estate 2009 la Santanchè è invece vicinissima a Sallusti (con cui inizierà una relazione affettiva) e Feltri: è lei che cura, infatti, la pubblicità di "Libero" e de "Il Giornale". Tra i protagonisti della macchinazione l’editorialista preferito da Berlusconi cita anche Luigi "Gigi" Bisignani, il faccendiere condannato in via definitiva per associazione a delinquere, che in quel periodo ha con la Santanchè un link privilegiato. Come ha spiegato lo stesso Bisignani a Henry John Woodcock nel corso degli interrogatori sull’inchiesta P4, ne è stato infatti prezioso consigliere per un lustro: il lobbista non solo suggerì all’amica di approdare nelle file del partito di Francesco Storace, "La Destra", ma in seguito si spese per farla tornare nell’alveo berlusconiano. Operazione riuscita, tanto che Bisignani chiarisce ai pm napoletani di essere riuscito a farle ottenere un incarico da sottosegretario di governo. «In questo scenario politico si innesta la mia attività collaborativa senza fini di lucro a favore della Santanchè per le sue attività nel settore della raccolta pubblicitaria», chiosa a verbale. «In pratica, feci stringere i rapporti tra la Santanchè e gli Angelucci (proprietari di "Libero", ndr). Le consigliai la costituzione di una vera e propria concessionaria, denominata Visibilia. Che poi ha iniziato a raccogliere pubblicità per "Il Giornale", in concomitanza del passaggio di Feltri dalla direzione di "Libero" a quella de "il Giornale"».
Il pm Scarfò non ha mai depositato le testimonianze di Feltri e Sallusti. L’inchiesta ha finora portato alla sbarra solo un cancelliere del palazzo di giustizia di Santa Maria Capua Vetere, Francesco Izzo, accusato di accesso abusivo al sistema informatico: è lui l’uomo che - secondo il magistrato - a marzo 2009 consultò indebitamente il casellario per estrarre i precedenti penali di Boffo. Dopo due anni, il processo è alle fasi finali, in attesa della requisitoria del pm. In caso di condanna, è probabile che nessun altro pagherà. Anche perché Boffo non ha mai sporto querela per diffamazione.
Parafrasando Carl von Clausewitz, la macchina del fango appare come la prosecuzione della politica con altri mezzi. Nel caso Boffo, Feltri e i compari che ordirono la trappola vinsero la battaglia: il 3 settembre 2009, dopo una settimana di cagnara mediatica, il direttore di "Avvenire" darà infatti le dimissioni. «La lezione» scrisse il "New York Times" «è che nessuno può osare sfidare Berlusconi, nemmeno la Chiesa». A nulla varrà la retromarcia del diretùr due mesi più tardi («è vero, nelle carte non si parla di "omosessuale attenzionato", si trattava di una bagattella e non di uno scandalo»), né la sospensione dell’albo professionale per tre mesi deciso dall’Ordine dei giornalisti della Lombardia.
L’assassinio mediatico è compiuto. Sulla scena del crimine un investigatore può facilmente rilevare i bossoli dei proiettili (la falsa informativa), le impronte digitali dell’arma che ha sparato (sono di Feltri e del suo vice di allora Sallusti) e i mandanti: se il giornalista ha raccontato la verità ai pm e a "l’Espresso", tra i sospetti c’è un piduista, un potentissimo cardinale di Santa romana Chiesa e il consigliere politico più influente di Berlusconi. «Ho pagato io solo come sempre succede» chiude Feltri. «C’è quel cretino del direttore che ci va di mezzo. È normale... Ho sbagliato a fidarmi, evidentemente. Ma talvolta capita, nella vita, di fidarsi».