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 2014  luglio 04 Venerdì calendario

BELINELLI: «APPENA VINCI PENSI: VOGLIO RIUSCIRCI ANCORA»

Marco Belinelli si è commosso ancora. Accolto con un lungo applauso, fatte partire le immagini del suo trionfo con i San Antonio Spurs, il primo giocatore italiano a vincere il titolo Nba ha fatto fatica a rispondere alla prima domanda: «Mi fate piangere ancora...». Bello. Beli è rimasto Beli anche con l’anello dei grandi, che gli verrà recapitato all’inizio della prossima stagione, già virtualmente al dito. Beli fa un grande regalo, quello più importante e gradito, ai tanti che ieri sono venuti in Gazzetta per salutarlo: il suo tempo, la disponibilità. Marco è stato lì, con una lunga coda educata davanti, ognuno con qualcosa da far firmare, il libro su di lui della Gazzetta, un pallone, la maglietta fino a quando la sala non s’è svuotata. Il tempo era già scaduto, ma nessuno è andato via deluso.
Tra gli ospiti d’onore c’è il presidente della Federazione, Gianni Petrucci a rappresentare l’orgoglio e la soddisfazione del basket italiano. «Non ti chiedo se vieni in Nazionale quest’anno perché so cosa mi rispondi — dice — ma se, come sei vestito adesso, ti presenti ad una delle nostre partite, Pianigiani ti fa giocare... E’ una battuta, ma anche un invito». Beli, passata la commozione («Faccio davvero fatica a trovare le parole per spiegare cosa ho provato vincendo il titolo»), si scioglie con le prime risposte. Domanda: Parker ha raccontato che Duncan non gli ha rivolto la parola nella sua prima stagione agli Spurs. Come è andata con te? «Idem — dice — ma per me è la più forte ala pivot di tutti i tempi, quello che dà il carattere a tutta la squadra. Il rapporto con lui è fatto di occhiate, piccoli gesti durante le partite. Da noi c’è Leonard che parla ancora meno di lui, ma siamo un gruppo e una squadra fantastica». Ammette di non aver assolutamente colto, mentre segnava in gara-3 la tripla che ha fermato la fuga degli Heat di aver realizzato un big shot: «Ero abbastanza nervoso perché avevo giocato poco, l’ho letto sui giornali, me lo hanno detto gli altri anche coach Pop il giorno dopo».
Mostra un tatuaggio sul braccio: è il Jim O’Brien Trophy che va ai campioni: «Non ne ho mai voluti, non mi piacevano, a chi mi chiedeva perché ho risposto “Lo farò quando avrò vinto qualcosa”. Questo sarà un marchio comune con le persone che mi sono state più vicino». Si destreggia tra paragoni e giudizi sui compagni . «Chris Paul è il primo che mi ha dato fiducia, che mi ha detto “ho bisogno di te per vincere”. Con Derrick Rose non ho potuto giocare perché era infortunato, ma ha un talento incredibile. Tony Parker è fortissimo: mi ha accolto con grande calore quando ci siamo incontrati per la prima volta da compagni all’Europeo in Slovenia, ci siamo ricordati quel momento a pochi attimi dalla vittoria del titolo assieme».
Gli allenatori: «Coach Popovich è una persona e un coach straordinario, non parla solo di basket, instaura un rapporto umano anche se poi è duro quanto ti cazzia. A Chicago, con Thibodeau, oltre che a migliorare in difesa, ho fatto i passi necessari perché una squadra da titolo come San Antonio mi volesse. Ma ogni esperienza fatta è stata fondamentale». Come fondamentale sono stati Manu Ginobili («Con lui in campo parliamo italiano che è anche meglio perché non ci capiscono») e Boris Diaw, uno scienziato gentiluomo. Soprattutto Marco fa trasparire perché una vittoria così cambia la vita di un uomo: «Ero lì, ancora incredulo, davanti al trofeo che avevo visto solo in televisione, a festeggiare il titolo, e ho pensato che vincere è una sensazione straordinaria e inspiegabile, che voglio subito riprovare ancora». Dell’incontro trovate una lunga intervista su Gazzetta.it. Chi ieri è venuto di persona, però, ha ricevuto da Belinelli qualcosa che gli resterà nel cuore. I campioni dovrebbero esistere per questo.