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 2014  luglio 04 Venerdì calendario

NIBALI: «LA MIA FRANCIA»

Orgoglioso del tricolore. Ha tenuto la maglia nascosta, non l’ha usata neppure in allenamento, perché ci teneva a mostrarla ieri sera per la prima volta sul palcoscenico mondiale del Tour, durante la presentazione delle squadre alla Leeds Arena: 13.000 spettatori. Vincenzo Nibali se la vuole togliere soltanto per cambiare colore: dal verde-bianco-rosso al giallo. Nel 1991 l’ultimo campione italiano sul podio: Gianni Bugno, secondo. Nel 1998 l’ultimo italiano in trionfo: Marco Pantani. A 29 anni, dopo 6 podi nei grandi giri dal 2010 (nessuno come lui), con due successi finali (Vuelta 2010 e Giro 2013: solo Contador lo eguaglia) e il terzo posto nel 2012, il siciliano lancia l’operazione Tour. E ci racconta «il mio romanzo giallo».
Nibali, qual è il suo rapporto con la Francia?
«Non c’ero mai stato prima di correrci. E nemmeno in Inghilterra, neanche in gita scolastica. Il primo ricordo è del 2006, Gp Plouay. Avevo 21 anni, seconda stagione. Ho vinto lì, il cuore ciclistico della Francia. Un bell’attacco nel finale, c’erano duecentomila persone sulle strade».
Debutto al Tour nel 2008: 18° in classifica.
«E ho portato anche la maglia bianca. Ma negli ultimi 3-4 giorni non ce la facevo più, ero finito. Venivo dalla vittoria al Trentino, da un buon Giro (11°). Sono arrivato 9° a Hautacam, per esempio. Mi sono preso qualche bella soddisfazione».
Che cosa colpì di più un ragazzo di 23 anni?
«I Campi Elisi, la gente, il giro d’onore. È qualcosa che ti rimane dentro. E in tv non si può percepire. Per un corridore è davvero molto bello, ti fai la foto sotto l’Arco di Trionfo...».
Seconda partecipazione al Tour nel 2009: 7°. Le cose cambiano.
«È l’anno in cui ho sentito un certo cambiamento nel motore, sono cresciuto di livello. E la qualità dei corridori era davvero molto alta. È stato il momento in cui ho capito che sarei stato capace di vincerli, i grandi giri».
Nono nella crono di apertura a Monaco, 3° a Verbier nel giorno di Contador, 4° a Le Grand Bornand, e la stretta di mano con Armstrong.
«Nella crono avevo davanti solo il meglio: Cancellara, Contador, Wiggins, Evans, e arrivai a 4” da Martin. Da quel giorno ho iniziato a investire sulla crono, sui materiali. Verbier fu il mio primo podio di tappa. Andai fortissimo. E l’episodio di Armstrong a Le Grand Bornand... Mi aveva staccato sulla salita precedente, io l’avevo ripreso in discesa. “Dammi un cambio, ho i crampi”, mi disse. E io glielo diedi subito. “Ma guarda che anch’io ce li ho, mi hai staccato dieci minuti fa”. E all’arrivo mi diede la mano».
Passiamo al 2012, la consacrazione: terzo dietro Wiggins e Froome.
«Quell’anno ho capito che la Francia era con me, ho visto tanto tifo, forse si ricordavano di quel ragazzino di Plouay... E credo che sarà così anche adesso. Con le due maxi-crono, più di questo non potevo fare. Non l’ho mai detto prima, ma al Delfinato non ero andato troppo bene e una sera pensai “Ma che ci vado a fare quest’anno al Tour?” Il podio è stato qualcosa di veramente bello, l’emozione, le lacrime. Ho corso gli ultimi giorni con uno stiramento alla gamba, l’ho tenuto nascosto per non farmi attaccare. Altrimenti una tappa l’avrei vinta. Ci ho messo un mese per recuperare».
E quel siparietto con Wiggins?
«Al termine di una tappa in cui avevo tentato un attacco mi aveva guardato dritto negli occhi. Non mi era piaciuto. L’avevo interpretato come una mancanza di rispetto. Il giorno dopo ci chiarimmo e lui mi strinse la mano. Poi mi raccontarono che appena chiusa la prima crono, che vinse, chiese subito il mio risultato. Evidentemente qualche pensiero glielo davo...».
Che cosa si ricorda del giorno sul podio ai Campi Elisi?
«Il percorso in bici per andare dal podio a festeggiare al bus della squadra. Vidi un tifoso vestito da Sherlock Holmes e mi feci una gran risata. C’era gente dappertutto. Ricordo che pensai alla Sicilia al mare, alle mie origini, prima di fare festa e finire zuppo di champagne».
Da ragazzino, come viveva il Tour?
«Ho ricordi lontani, un po’ Bugno, qualche vittoria di Indurain. Nel 1998, quando vinse Pantani, correvo negli esordienti. Era estate, ricordo che si usciva tutti con la bandana di Marco, lui era l’idolo di noi ragazzini».
Che Tour si aspetta?
«Il tracciato è diverso dalle ultime edizioni, devo cercare di guadagnare sin da subito. Ma senza che diventi un’ossessione, non come alla Vuelta 2011, quando mi sono sfinito a cercare la maglia di leader e mi sono cotto. Arrivai settimo ma negli ultimi giorni quasi mi staccavo in pianura. Qui serve tranquillità, e colpire quando c’è l’occasione».
Il pavé di Arenberg?
«E’ una tappa importante. Bisogna correre al meglio, l’abilità nella guida non mi manca, e Contador è un combattente come me, può essere un alleato. Fondamentale quel giorno la compattezza di squadra. E se hai fortuna e non ti succede niente riesci a guadagnare anche 1’».
E Froome?
«Al Delfinato ci guardava in faccia perché voleva staccarci tutti, che voglia aveva... Ma è difficile che lui e Contador crescano ancora come condizione. E io invece sono migliorato, e il Tricolore l’ha dimostrato».