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 2014  luglio 04 Venerdì calendario

L’ACCORDO PER IL NUCLEARE È LA MADRE DI TUTTE LE TRATTATIVE

Ieri a Vienna hanno preso il via i nego­ziati finali tra Teheran e il gruppo dei 5+1 (Stati Uniti, Russia, Gran Bretagna, Francia e Cina più la Germania) sul programma nucleare. La maratona diplomatica, annunciata come «un’opportunità storica» dal segretario di Stato americano John Kerry, potrebbe durare fino al 20 luglio e mira a rag­giungere un accordo per garantire la natura pacifica del programma nucleare degli aya­tollah dopo dieci anni di tensioni internazio­nali. Ma se anche la questione è rimasta “sot­to traccia” per mesi, dopo le accelerazioni im­presse (di facciata) dall’ex presidente Mah­moud Ahmadinejad ora fuori gioco, è altret­tanto chiaro che con il passare dei giorni stia diventando – parafrasando un motto tanto caro a quello scacchiere geopolitico – la «ma­dre di tutte le trattative». Le crisi in Iraq, Siria e di riflesso la questione palestinese, sono infatti scenari nei quali si riflette specularmente la posizione dei pro­tagonisti al tavolo delle trattative austriache.
Teheran, per voce anche dell’attuale presidente Roha­ni, il personaggio più “spendibile” in questo momento a livello internazionale, ha infatti subordinato la sua piena collaborazione a ri­solvere il caos iracheno a un accordo «soddi­sfacente » sul dossier atomico. La Russia, prin­cipale sponsor di Teheran sulla querelle, ha già inviato 25 caccia Sukhoi-25 a Baghdad en­trando militarmente nel conflitto innescato dall’Isis. Gli Stati Uniti, nonostante le preoc­cupazioni di Obama sul pericolo di impanta­narsi in una nuova guerra, si trovano ora di fat­to schierati a fianco di Putin e dell’Iran (che offre appoggio militare al sempre più debole premier sciita Nouri al-Maliki). Una situazio­ne improponibile solo poche settimane fa.
Il triennale conflitto siriano ha dinamiche molto simili. O meglio: l’Iran è anche lì sem­pre più protagonista del “gioco”. Da sempre a fianco di Bashar al-Assad, come del resto Mosca, ha dimostrato di essere in grado di governare truppe e di fornire appoggi rile­vanti al regime. Come del resto fa da tempo nel confinante Libano con gli hezbollah. Mo­sca e Tehe­ran, quindi, alleate del governo di Damasco e gli Stati Uniti anche qui “a metà del guado”. Costretti, cioè, a riprendere gli aiuti ai ribel­li dell’Esercito di liberazione siriano di fron­te allo strapotere, a cavallo del confine ira­cheno, dei miliziani di al-Baghdadi e del (per ora coreografico) Califfato proclamato dal leader indiscusso dello Stato islamico dell’I­raq e del Levante. In tutta questa galassia di equilibri in conti­nua evoluzione c’è però Israele, che non può solamente stare a guardare davanti a un rafforzamento nello scacchiere di Teheran, a un accordo nucleare che (lo ha sempre riba­dito anche il premier Benjamin Netanyahu) consentirebbe agli ayatollah di costruire la prima bomba atomica, e spettatore interes­sato del marasma iracheno. E qui entra in gio­co, o dovrebbe farlo, l’America. Tra l’aspetta­tiva e l’azione, infatti, c’è il peso sempre mi­nore della diplomazia statunitense nel con­testo mediorientale. Perché, fallito ogni ten­tativo di negoziato sulla questione palestine­se, avallato di fatto l’accordo di governo di u­nità nazionale tra Anp e Hamas, Obama ha or­mai un’influenza sempre più decrescente sul­l’alleato storico israeliano.
E tutto questo si riverbera quindi, inevitabil­mente, sulle trattative in corso a Vienna. Il ri­sultato non è per nulla scontato, nonostante l’ottimismo di facciata espresso anche in que­ste ore dal ministro degli Esteri di Teheran Mohammad Javad Zarif. Ma soprattutto gli Usa sanno benissimo che senza un risultato in queste due settimane di trattative la situa­zione si complicherebbe ulteriormente. In tutto quel Medio Oriente che l’Amministra­zione di Washington sembra non volere più “coltivare” ormai da tempo.