Fabio Carminati, Avvenire 4/7/2014, 4 luglio 2014
L’ACCORDO PER IL NUCLEARE È LA MADRE DI TUTTE LE TRATTATIVE
Ieri a Vienna hanno preso il via i negoziati finali tra Teheran e il gruppo dei 5+1 (Stati Uniti, Russia, Gran Bretagna, Francia e Cina più la Germania) sul programma nucleare. La maratona diplomatica, annunciata come «un’opportunità storica» dal segretario di Stato americano John Kerry, potrebbe durare fino al 20 luglio e mira a raggiungere un accordo per garantire la natura pacifica del programma nucleare degli ayatollah dopo dieci anni di tensioni internazionali. Ma se anche la questione è rimasta “sotto traccia” per mesi, dopo le accelerazioni impresse (di facciata) dall’ex presidente Mahmoud Ahmadinejad ora fuori gioco, è altrettanto chiaro che con il passare dei giorni stia diventando – parafrasando un motto tanto caro a quello scacchiere geopolitico – la «madre di tutte le trattative». Le crisi in Iraq, Siria e di riflesso la questione palestinese, sono infatti scenari nei quali si riflette specularmente la posizione dei protagonisti al tavolo delle trattative austriache.
Teheran, per voce anche dell’attuale presidente Rohani, il personaggio più “spendibile” in questo momento a livello internazionale, ha infatti subordinato la sua piena collaborazione a risolvere il caos iracheno a un accordo «soddisfacente » sul dossier atomico. La Russia, principale sponsor di Teheran sulla querelle, ha già inviato 25 caccia Sukhoi-25 a Baghdad entrando militarmente nel conflitto innescato dall’Isis. Gli Stati Uniti, nonostante le preoccupazioni di Obama sul pericolo di impantanarsi in una nuova guerra, si trovano ora di fatto schierati a fianco di Putin e dell’Iran (che offre appoggio militare al sempre più debole premier sciita Nouri al-Maliki). Una situazione improponibile solo poche settimane fa.
Il triennale conflitto siriano ha dinamiche molto simili. O meglio: l’Iran è anche lì sempre più protagonista del “gioco”. Da sempre a fianco di Bashar al-Assad, come del resto Mosca, ha dimostrato di essere in grado di governare truppe e di fornire appoggi rilevanti al regime. Come del resto fa da tempo nel confinante Libano con gli hezbollah. Mosca e Teheran, quindi, alleate del governo di Damasco e gli Stati Uniti anche qui “a metà del guado”. Costretti, cioè, a riprendere gli aiuti ai ribelli dell’Esercito di liberazione siriano di fronte allo strapotere, a cavallo del confine iracheno, dei miliziani di al-Baghdadi e del (per ora coreografico) Califfato proclamato dal leader indiscusso dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante. In tutta questa galassia di equilibri in continua evoluzione c’è però Israele, che non può solamente stare a guardare davanti a un rafforzamento nello scacchiere di Teheran, a un accordo nucleare che (lo ha sempre ribadito anche il premier Benjamin Netanyahu) consentirebbe agli ayatollah di costruire la prima bomba atomica, e spettatore interessato del marasma iracheno. E qui entra in gioco, o dovrebbe farlo, l’America. Tra l’aspettativa e l’azione, infatti, c’è il peso sempre minore della diplomazia statunitense nel contesto mediorientale. Perché, fallito ogni tentativo di negoziato sulla questione palestinese, avallato di fatto l’accordo di governo di unità nazionale tra Anp e Hamas, Obama ha ormai un’influenza sempre più decrescente sull’alleato storico israeliano.
E tutto questo si riverbera quindi, inevitabilmente, sulle trattative in corso a Vienna. Il risultato non è per nulla scontato, nonostante l’ottimismo di facciata espresso anche in queste ore dal ministro degli Esteri di Teheran Mohammad Javad Zarif. Ma soprattutto gli Usa sanno benissimo che senza un risultato in queste due settimane di trattative la situazione si complicherebbe ulteriormente. In tutto quel Medio Oriente che l’Amministrazione di Washington sembra non volere più “coltivare” ormai da tempo.