Fabrizio Salvio, SportWeek 28/6/2014, 28 giugno 2014
GIANLUCA PAGLIUCA – IO ANCORA LI SOGNO DI NOTTE
«Io quei rigori me li sogno ancora tutte le notti. Sono là, piegato sulle ginocchia davanti a Dunga, e mentre quello prende la rincorsa, lo guardo fisso e penso: stavolta te lo prendo, stavolta te lo prendo! E poi mi sveglio, col cuore che batte forte e tutto sudato».
Il fatto è che non l’ha preso, quel rigore, l’ultimo tirato dai brasiliani nella finale di Usa ’94. E nemmeno gli altri che ci condannarono alla sconfitta. Nessuno tranne il primo, a Marcio Santos: e sarebbe bastato, se Baresi, Massaro e Roberto Baggio, nell’ordine, avessero fatto il loro dovere dal dischetto. Questo e quello parato al francese Lizarazu nei quarti di finale di Francia ’98 giocati contro i padroni di casa (e pure quella volta finì male per noi) fanno di Gianluca Pagliuca, 47 anni, ex Samp, Inter e Bologna, il portiere azzurro che ha parato più rigori (due, appunto) al Mondiale, quando la partita – la finale o a eliminazione diretta – si è decisa coi tiri dal dischetto alla fine dei tempi supplementari.
In entrambe le occasioni fermò i tiri di due difensori. Dica la verità: se sbagliarono fu più demerito loro che bravura sua.
«Col cavolo! Vado orgoglioso del fatto di essere il portiere che ha parato più rigori in Serie A: 23 su 109. Non è la percentuale più alta, ma per numero assoluto sono ancora il migliore. Insomma, le parate del ’94 e del ’98 non furono un caso. Il problema è che non servirono a niente. E dire che, prima di allora, mi era sempre andata bene. Coppe, tornei, persino amichevoli, anche nelle categorie giovanili: ai rigori non avevo mai perso».
Se le ricorda bene quelle parate?
«Eccome. Lizarazu tirò effettivamente una mozzarella: molto lento e rasoterra. Mi tuffai e addirittura bloccai la conclusione. Ma quello di Marcio Santos era un bel tiro, forte a mezza altezza alla mia destra: ci arrivai col braccio di richiamo. Parata importante perché arrivava subito dopo il nostro primo rigore fallito da Baresi».
In questi anni ha maledetto più se stesso per non essere riuscito a pararne altri o i suoi compagni per i loro errori, tre in Brasile e due in Francia?
«Né l’una né l’altra cosa. Mi è rimasto dentro il rimpianto, questo sì: se penso che Buffon è diventato campione del mondo senza aver parato un rigore nella finale con la Francia... Ma come fai a prendertela se un tuo compagno sbaglia dopo 120 minuti di partita, supplementari compresi, avendo le gambe a pezzi e addosso una pressione pazzesca? Quanto a me, se un portiere para anche uno solo dei 5 rigori previsti, sa già di aver fatto il suo dovere, ha la coscienza tranquilla. Ed è più facile che ne pari altri».
Nella cosiddetta lotteria dei rigori un portiere non può tirarsi indietro, un suo compagno invece sì. Contro Brasile e Francia quanti dissero al c.t.: “Non ce la faccio”, adducendo i più svariati pretesti?
«Negli Stati Uniti mi viene in mente Donadoni, che si avvicinò a Sacchi e disse: “Mister, non me la sento”. C’era da capirlo, aveva sbagliato 4 anni prima al Mondiale in Italia... Io non ho mai condannato nessuno: è giusto che se uno non è tranquillo o non ha più forze faccia passare avanti un altro. E comunque, nonostante sia più lontana nel tempo, io ricordo nei particolari il prima e il dopo dei tiri dal dischetto contro il Brasile, nel ’94. Era una finale, mentre in Francia, quattro anni dopo, in fondo ci giocavamo solo l’accesso alla semifinale... ».
Lei, invece, come si preparava al momento fatidico?
«Caricandomi da solo. Non ho mai avuto bisogno di parole di conforto, anche se è naturale che in certe occasioni compagni e tecnici si facciano un dovere di venirti vicino dicendoti cose come: rilassati, stai tranquillo... In Francia, Buffon mi caricò dicendomi: vai che li pari tutti! In America mi vennero vicino Marchegiani e Bucci, secondo e terzo portiere, e Ancelotti, Carmignani... Poi, al momento del tiro, guardavo l’avversario negli occhi».
Provava a disturbarlo in qualche modo? Per esempio spostandogli il pallone sul dischetto o facendo lo show sulla linea di porta stile Dudek del Liverpool nella finale di Champions contro il Milan del 2005?
«Ai miei tempi un portiere non poteva muoversi sulla linea di porta, neanche lateralmente. E poi certi giochini non mi piacciono: i portieri che perdono tempo o provano a innervosire il tiratore sono deboli dentro. E quasi sempre perdono la sfida col rigorista».
Si era preparato sui rigoristi avversari?
«Dei brasiliani conoscevo Romario, che però mi spiazzò, e Bebeto, che neanche tirò perché a quel punto il suo rigore era diventato ininfluente. A Saint-Denis andai vicino a prendere quelli di Henry e i Trezeguet. Ma dei rigoristi di Serie A avevo videocassette e appunti su tutti: sapevo come calciava ognuno di loro».
E c’è mai stato un compagno che prima di un rigore le dicesse: ascolta me, quello lo conosco, buttati da quella parte?
«Alla Samp avevo Vierchowod che tutte le volte mi rompeva le palle (ride). Quello tira a destra, quello tira a sinistra, con quello stai fermo!».
E lei?
«Ho sempre fatto tutto il contrario».