l’Unità 30/6/2014, 30 giugno 2014
LA CANNABIS TRA CURA, TERAPIA E PREGIUDIZI
Sembra che il primo ad aver descritto le proprietà e l’uso terapeutico della cannabis sia stato l’imperatore della Cina Shen Nung in un compendio sulle erbe medicinali scritto nel 2737 a.C. Dovranno passare secoli prima che un medico britannico che lavora in India scopra le proprietà antivenuto, analgesiche, stimolanti dell’appetito della pianta e le pubblichi in un articolo. Da allora (siamo nel 1839) l’uso della cannabis si diffuse in Europa per trattare dolori, spasmi, disturbi del sonno, perdita di appetito. Venne prescritto perfino alla regina Vittoria per evitare i dolori mestruali. Poi, all’inizio del XX secolo, questi farmaci caddero in disuso anche perché negli Stati Uniti la cannabis venne messa sotto accusa come sostanza in grado di indurre comportamenti violenti e pazzia in chi la utilizzava. Seguì l’epoca della proibizione: a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso la cannabis diventò illegale in quasi tutti i Paesi del mondo.
Negli ultimi vent’anni tuttavia gli studi sugli effetti terapeutici delle sostanze chimiche presenti nella cannabis si sono moltiplicati. La spinta per questo rinnovato interesse è stata data dalla scoperta, all’inizio degli anni Novanta, del sistema endocannabinoide: si scoprì cioè che piccole molecole che fungono da segnale e che sono prodotte all’interno dei neuroni si legavano agli stessi recettori utilizzati anche dal principale costituente psicotropo della cannabis, il Thc. Queste molecole sono state perciò chiamate endocannabinoidi e nel corso degli anni si è visto che svolgono un ruolo nei processi cognitivi, motori, sensoriali e anche in alcune condizioni patologiche che riguardano il sistema nervoso centrale. Si è cominciato così a pensare che anche gli esocannabinoidi presenti nella pianta potessero avere proprietà simili.
Oggi, però, sull’uso terapeutico della cannabis regna un po’ di confusione: quali sono i casi in cui i farmaci a base delle sostanze chimiche presenti nella marijuana hanno un effetto positivo accertato?
Secondo una revisione di circa 100 studi condotta in Germania e pubblicata sul Deutches Artzteblatt International nel 2012, ci sono prove del fatto che i cannabinoidi sono utili per il trattamento di diverse malattie: «È ormai accertato che i cannabinoidi abbiano un effetto antinausea, antivomito, di stimolazione dell’appetito spiega Giovanni Ambrosetto, neurologo ed ex professore all’Università di Bologna – tutte caratteristiche che li rendono utili per contrastare gli effetti della chemioterapia. Altri studi hanno evidenziato l’efficacia di queste sostanze per il trattamento del dolore neuropatico, della spasticità e degli spasmi dolorosi della sclerosi multipla». E fin qui siamo nel regno del noto, ma recentemente si sono visti effetti positivi anche su altre patologie: «Ad esempio, le epilessie focali che nascono da certi punti del cervello dove i recettori per i cannabinoidi sono più rappresentati, come l’epilessia temporale e la frontale notturna. Poi malattie come la sindrome di Tourette, un disordine neurologico caratterizzato dalla presenza di molti tic e un eccesso di movimento. In questo caso i cannabinoidi sembrano avere un effetto positivo perché danno una riduzione del movimento: è per questo che durante l’uso si sconsiglia di guidare l’auto. Negli ultimi anni si stanno svolgendo studi sull’uso di queste sostanze in malattie degenerative del sistema nervoso, come le demenze, l’Alzheimer. E ancora c’è una corrente di pensiero che vede un suo possibile impiego in alcuni tipi di tumore cerebrale – come il glioblastoma – o polmonare, ma per ora si tratta solo di risultati ottenuti in laboratorio su cavie e colture cellulari»
E, a proposito di scoperte in laboratorio, all’inizio di giugno sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences (Pnas) è stato pubblicato un articolo frutto di un lavoro svolto all’Istituto di chimica biomolecolare del Cnr di Pozzuoli. I ricercatori hanno visto che un recettore degli endocannabinoidi svolge un ruolo nel processo di formazione del muscolo scheletrico. Una scoperta, dicono, che apre potenziali implicazioni terapeutiche per il trattamento di importanti patologie degenerative, come le distrofie muscolari, per le quali non sono attualmente disponibili trattamenti farmacologici risolutivi.
POSIZIONI DISCORDANTI
Insomma, lo spettro d’azione di queste sostanze sembrerebbe molto ampio, forse troppo: «Oggi che si fabbricano le medicine per un sintomo, specifico, è difficile maneggiare una sostanza che ha tante proprietà terapeutiche», commenta Ambrosetto. E così, parliamo sempre di effetti probabili e mai di certezze, tanto che recentemente Silvio Garattini, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, ha affermato che «la letteratura scientifica oggi disponibile sembra presentare ancora molti dubbi circa il rapporto benefici-rischi nell’impiego terapeutico della cannabis».
Come mai? «Purtroppo – prosegue Ambrosetto – spesso non sono stati fatti studi con il rigore scientifico richiesto, quindi gli effetti sono probabili ma non si possono dire certi. A volte si dimentica che quando si legalizza una sostanza dobbiamo essere certi che non faccia male o che faccia meno male di altre, ma quando si legalizza un farmaco dobbiamo essere certi che faccia anche bene». E allora, cosa fare? «Invece di dividersi tra chi vede la marijuana come panacea universale e chi la considera un veleno, sarebbe utile fare studi in doppio cieco». Uno studio in doppio cieco è uno studio clinico in cui si dividono i soggetti in due gruppi: un gruppo riceve il trattamento, l’altro gruppo un trattamento diverso o nessun trattamento, ma né lo sperimentatore né i soggetti inclusi sono a conoscenza dei trattamenti assegnati. Solo così si può avere certezza dell’effetto di un farmaco, escludendo un effetto esclusivamente placebo. Ma questo tipo di trial clinici non si fanno o si fanno troppo poco sui cannabinoidi: «Indubbiamente, c’è un pregiudizio culturale che impedisce la sperimentazione – conclude Ambrosetto – mentre la prescrizione nei casi in cui l’effetto è accertato non viene fatta spesso per disinformazione del medico che non conosce i farmaci». Quali sono questi farmaci? «Tra quelli in commercio c’è il Sativex, che viene somministrato per spray orale e che è composto in percentuale eguale da due cannabinoidi: il Thc (delta 9-tetraidrocannabinolo) che ha un effetto psicotropo, ovvero agisce sulle funzioni psichiche, e il Cbd (cannabidiolo) che non ha questo effetto. Poi ci sono il Bedrocan e il Bediol, infiorescenze che hanno percentuali diverse degli stessi cannabinoidi e che vengono somministrati per vaporizzazione. Il Sativex è l’unico registrato in Italia, gli altri due vengono importati e si trovano anche in farmacia, ma non vengono rimborsati dal Servizio sanitario nazionale e costano molto. C’è da dire che soprattutto tra i giovani è invalso l’uso di fumare invece di vaporizzare questi prodotti, ma è un uso sbagliato che può essere dannoso».
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