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 2014  luglio 02 Mercoledì calendario

«TELECOM È GIÀ PUBLIC COMPANY»

[Intervista a Giuseppe Recchi] –

Giuseppe Recchi è al vertice Telecom dal 9 maggio. Nominato dall’assemblea col 50% del capitale, è presidente con supervisione sulle strategie.
La presidenza è diventata esecutiva. Non è in contrasto con le raccomandazioni del vecchio cda che, nella direzione della public company, prevedevano espressamente un ruolo non esecutivo?
Le deleghe sono finalizzate a un equilibrio dei poteri, affinchè il presidente affianchi l’ad per cogliere le sfide che la società ha davanti. Ne abbiamo molte: di settore, di mercato e aziendali. Non si è fatto altro che proseguire un percorso avviato in precedenza: la job description per la ricerca del nuovo presidente, così come disegnata dal vecchio cda, andava in questa direzione.
Però la ricerca del presidente dopo Bernabè era precedente all’assemblea di dicembre dove si è sfiorata la revoca del board e prima dunque delle raccomandazioni di governance.
Ma il consiglio precedente ragionava sulla stessa evoluzione della governance che ha prodotto le raccomandazioni. E l’assemblea di aprile ha votato con chiara conoscenza del profilo delle persone, nominandomi presidente. Abbiamo diviso le competenze tra la responsabilità di "fabbrica" e la responsabilità di assicurare e gestire "l’ordine della casa", con l’indicazione di un’analisi delle strategie il più approfondito e trasparente possibile.
Sulle strategie c’è sovrapposizione con l’ad, mentre ha rinunciato alla supervisione sull’audit che faceva parte del ruolo di garanzia richiesto.
Io continuo a essere presidente di garanzia per tutti. Come presidente sono diventato tecnicamente "dipendente" dalla società, ma resto "indipendente" da tutti gli azionisti. Va dato atto a chi ha presentato le liste di aver composto un cda formato quasi tutto da indipendenti e questa è la sostanza. Al presidente il cda delega il ruolo di essere attivo nella società e di fungere da garante, contrappeso e complementare rispetto ai poteri esercitati dall’ad, mentre l’audit riporta direttamente al consiglio, come prevede la governance. Non ho dunque perso le competenze generali anche sull’audit, ma lo specifico ruolo di raccordo tra la funzione e il board che ho proposto fosse attribuito al presidente del comitato controllo e rischi Lucia Calvosa. E i passi sulla governance non sono finiti, tant’è che abbiamo avviato l’analisi per un’ulteriore evoluzione.
In che direzione?
Nella direzione della public company: nessun azionista, come si è visto in assemblea, è in grado di influenzare la gestione di Telecom. È un workout esplorativo in una situazione in cui lo stesso sistema italiano è in divenire: penso ad esempio all’introduzione delle azioni con voto multiplo che sono una novità per il nostro Paese. Pensiamo sia un’opportunità oltre che un valore ambire a essere una best practice.
Si dovrà modificare lo statuto?
Dipende. Il concetto della public company all’anglosassone non è applicabile tout court: bisogna adattarlo alla realtà italiana. All’estero, per esempio, è possibile votare singoli candidati al board. Qui invece c’è il voto di lista che per alcuni versi è un meccanismo più garantista nei confronti delle minoranze. O, ancora, altrove il consiglio non scade tutto insieme e nulla eviterebbe di prevedere scadenze scaglionate anche qui.
L’indipendenza di Telecom è un valore? Meglio una Telecom Italia autonoma o una Telecom parte di una multinazionale?
Se la domanda è quale è la condizione migliore per fronteggiare le sfide del mercato, la risposta è che Telecom esprime la capacità di creare valore attraverso il suo brand, i clienti e soprattutto la sua capacità tecnologica. La nostra strategia è sviluppare i mercati in cui siamo presenti puntando sulla tecnologia, come prevede il piano industriale preparato dall’ad Marco Patuano. Con la tecnologia si vince: o sei capace di esprimerla o non vai da nessuna parte con chiunque ti possa accompagnare. Solo in Italia il piano Telecom prevede investimenti per 9 miliardi in tre anni, di cui 3,4 miliardi in nuove tecnologie: da qui al 2016 porteremo la copertura in fibra al 50% della popolazione e il 4G all’80%. Il mercato italiano ha espresso storicamente le più grandi innovazioni del settore, ma deve esserci sincronia con la domanda. L’Italia – è bene chiarirlo – in questo momento non ha un problema di offerta, bensì di domanda: la domanda effettiva per la banda ultralarga è solo del 12%, quando i 20-30 mega sono già disponibili per il 70% della popolazione. Noi siamo una private company: devi saper leggere bene il tuo mercato perché non si tratta di un business sussidiato. Ma creare le condizioni perché la domanda si sviluppi è anche compito della politica e del regolatore. Le energie rinnovabili non si sarebbero mai sviluppate senza una politica che ha indotto i privati a fare investimenti. Di una politica industriale c’è estremo bisogno in Italia, perché sono anni che non c’è. La stessa agenda digitale è una lista di obiettivi, per la quale mancano ancora molti decreti attuativi. Un Paese, come un’azienda, deve definire le strategie per raggiungere gli obiettivi e, nel caso dello Stato, lo strumento è legislativo e regolatorio. La situazione peggiore per noi è che al rischio di mercato si aggiunga l’incertezza regolatoria. Al di là del merito, in cui non entro, rimettere in discussione le tariffe di unbundling 2010-2012, rivedendo dopo quattro anni condizioni sulle quali sono stati impostati gli investimenti, è un concetto destabilizzante per qualunque mercato.
Telco ha deciso di sciogliersi: il futuro di Telecom quindi è la public company?
Secondo me Telecom public company lo è già. Noi comunque dobbiamo gestire l’azienda a prescindere da quello che farà Telco: il nostro compito è creare valore. Poi, se una società è sul mercato, in qualche modo è contendibile.
Supponiamo che lo Stato investa in Telecom e dia alle sue azioni il voto multiplo, sul presupposto che la rete è un asset strategico per il Paese. A questo punto la contendibilità sarebbe limitata.
Il miglior modo per lo Stato di proteggere interessi strategici è attraverso le leggi e non le quote azionarie. Lo Stato vuole che le aziende siano ben gestite e che attraverso la loro attività contribuiscano allo sviluppo del Paese. Il tema della rete di tlc è un tema di investimenti: la risposta di Telecom c’è già, va accoppiata alla risposta del Paese. È un problema anche culturale. In Italia c’è un’età media alta, e una bassa diffusione di conoscenze digitali: il 33% degli italiani – dicono i sondaggi – non sa ancora bene cosa farsene di Internet.
Può definirsi public company una società che ha un azionista di peso come Telefonica che, sciolta Telco, arriverà a detenere direttamente una quota vicina al 15%?
A oggi Telefonica non controlla Telecom. Se poi ci sono azionisti che vogliono investire, ben vengano.
Quanto ritiene concreto il rischio che il contenzioso tra le autorità brasiliane e Telefonica possa ribaltarsi a danno di Telecom, che venga cioè imposto di cedere Tim Brasil?
Mi sembra un’ipotesi fantascientifica perchè si sta parlando di società quotate e ormai i mercati finanziari sono completamente integrati nei codici di comportamento. Per cui ritengo prossima allo zero la probabilità di un simile scenario.
Ok, ma senza svendere, vendere Tim Brasil è un’opzione?
Vendere, per tutti, è sempre un’opzione: dipende dal prezzo. Dopodiché, essendo Tim il secondo operatore mobile del Brasile con 70 milioni di clienti, 5 miliardi di investimenti programmati fino al 2016, e per noi fonte di un terzo dei ricavi di gruppo, è strategica.
Non ritiene che l’integrazione con Gvt sia un’alternativa da approfondire in Brasile, dando espresso mandato all’ad?
Guardiamo all’evoluzione dei mercati nell’ottica di opzioni strategiche in ogni possibile direzione. Non c’è bisogno di mandato per approfondire. Abbiamo già le deleghe e l’ad gestisce la società in tutti i suoi aspetti, ordinari e straordinari, che andranno poi sottoposti al cda per approvazione.
La vendita di Telecom Argentina è in ritardo e la scadenza di agosto si avvicina: c’è il rischio che salti?
Contrattualmente il perfezionamento della vendita è legato all’ok dell’Authority locale delle tlc. Al quadro si aggiunge la situazione complessa del Paese, ma alla scadenza non siamo ancora arrivati e continuiamo a essere confidenti.
L’ipotesi di scorporo della rete da otto anni scompare e riaffiora. Cosa ne pensa? Da considerare o da archiviare definitivamente?
C’è un equivoco latente e cioè che il gap di sviluppo digitale del Paese sia dovuto esclusivamente a una carenza della rete, quando invece non è così. La rete è d’interesse nazionale, ma la società è privata da molti anni: un Paese saggio rende conveniente investire. Quale vantaggio avrebbe invece lo Stato con lo scorporo? Gli investimenti poi chi li fa? Mettiamo invece in grado di investire chi ha competenze e risorse. La concorrenza non è un concetto statico: si deve stimolarla favorendo l’innovazione. I migliori frutti non si raccolgono più avendo come obiettivo solo i prezzi.
Telecom però ha un debito elevato. Non sarebbe meglio approfittare, prima che finisca, del buon momento sui mercati per raccogliere capitali con un aumento? O magari prevedere la conversione delle risparmio?
Un aumento di capitale serve per raccogliere le risorse utili a raggiungere un obiettivo. Ma a oggi con il piano siamo dotati di tutte le risorse necessarie per raggiungere i nostri obiettivi. Sulle risparmio non ci sono ragionamenti in corso.
Cosa si augura per il futuro?
Di fare la prossima intervista via smartphone: significherà che l’agenda digitale si sta realizzando.

Antonella Olivieri, Il Sole 24 Ore 2/7/2014