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 2014  luglio 01 Martedì calendario

ANNA MAZZAMAURO: «VI HO INGANNATO, SONO BELLA»

Un’anomalia si aggira da anni per i palcoscenici italiani, il suo nome è Anna Mazzamauro. Comedienne, doppiatrice, indimenticabile interprete dalla Signorina Silvani, la vamp sui generis dei film di Fantozzi, ha ritirato in questi giorni il premio Queen of Comedy alla 28° edizione del Festival Mix Milano, dedicato alla cultura queer. E il suo spettacolo Nuda e Cruda, forte del successo riscontrato quest’anno, tornerà in tournée dal febbraio 2015 a partire dal Teatro Sala Fontana di Milano.

Il riconoscimento del festival milanese arriva a lei dopo esser passato da altre donne che hanno reso grande lo spettacolo italiano, da Angela Finocchiaro a Lella Costa, da Franca Valeri a Sandra Milo, da Cinzia Leone a Geppi Cucciari. Si sente in sintonia con qualcuna di loro o piuttosto diversa tra diverse?

Io sono talmente in sintonia con me stessa che non mi metto mai in sintonia con nessun altro. Detesto i paragoni. Nel mio spettacolo, un ragazzo racconta alla madre della propria omosessualità e quella, stronza – trova tua un altro termine, ma tanto è stronza – si dispera: “Un figlio diverso! Che dolore!”. Ma lui le spiega: “Non sono io che sono diverso, sono gli altri che sono troppo uguali.” Beh, è così anche per me: non sono io che sono brutta, sono gli altri che sono troppo belli.

La leggendaria bruttezza di Anna Mazzamauro è dunque uno strumento da queen of comedy?

È vero, ho giocato per tutta la mia carriera su questo, ma in realtà vi ho ingannati: sono bella! E poi io non ho mai usato il termine “bruttezza”, ho sempre detto di essere “atipica”. Brutte sono altre cose, sporche e volgari, atipico, invece, è chi non rientra nei racconti degli altri sulla bellezza, che dicono che bisogna avere il naso corto, le gambe attaccate ai lobi delle orecchie, il culo alto, le tette al vento. Non amo i paragoni perché mi ricordo che, già dall’asilo, quando chiedevo una caramella, le suore me la davano già scartata, a volte persino già leccata, mentre alle mie compagne, bionde e belle e con gli occhi cerulei, davano la caramella intera e incartata. La mia carriera, perciò, l’ho tirata fuori con ferocia. Se andavo a parlare di lavoro, per me era lavoro e basta, non voleva dire mettermi in mutande, ma leggevo sulla faccia dei miei interlocutori: “Ma che vuole questa? Fare l’attrice?”. La mia vittoria, ammesso che ci sia stata, vale trecentomila volte di più, perché è una vittoria alla faccia di questa gente che misura le attrici in un certo modo: di certo non ne misura l’intelligenza.

Una vittoria “nuda e cruda”, insomma.

Sì, ma non solo io sono nuda e cruda, anche gli altri. Non posso denigrare o coinvolgere il pubblico nella ricerca del sorriso se prima non ho sorriso di me stessa. Nasco autoironica perché appena ho visto uno specchio ho dovuto per forza diventare autoironica, o ero spacciata. Solo dopo ho potuto prendere in giro anche gli altri.

L’ironia come arma, un po’ come il naso di Cyrano, che lei ha interpretato, unica donna al mondo a vestire i panni del personaggio maschile di Rostand.

Questo è esattamente il senso delle creature che porto in scena. Così come nella vita, per me non esiste l’etero, l’omo, esiste la creatura. Cyrano era un uomo, ma era l’amore come lo raccontava lui che volevo raccontare, la lotta per far esplodere la propria atipicità, un altro modo di essere bello, l’eroismo e soprattutto il suo naso. Ho potuto interpretare Cyrano perché l’impresario di allora ha pensato: “Qui, almeno, risparmiamo sul trucco.” Io racconto le creature atipiche come me e inneggio alla libertà che, al di là della retorica, per me significa poter vivere a seconda della propria indole, del proprio carattere, senza essere turbati dal confronto con altri.

Non a caso, si dichiara anarchica.

Non bombarola, intendiamoci. L’anarchia per me è il principio difficilissimo di condurre la propria vita secondo una coscienza individuale, il più alta e forte possibile, e non secondo le leggi dettate da altri.

Lei è nata come imprenditrice di se stessa. Un’altra caratteristica piuttosto atipica.

Adesso ho un impresario, ma all’inizio ho dovuto fare l’impresaria di me stessa per mettere in evidenza le mie specificità. Per far vincere il mio teatro, ho dovuto pagare con i miei soldi, sudati, e conquistarmi un ascolto.

Un mestiere meraviglioso il suo, ma anche un mestiere molto faticoso, specie agli inizi, specie da sola con una figlia piccola. Come se l’è cavata?

È stato difficilissimo. Adesso non devo più condurre quella vita, perché mia figlia ormai si conduce da sola in modo meraviglioso, ma di certo non ha mai amato la mia professione, perché quando era bambina mi portava via spesso. Ma con la tigna, per dirla alla romana, cioè con la cocciutaggine che mi contraddistingue, sono riuscita a fare quello che volevo fare, come ce la fanno tante altre donne, che per realizzarsi si alzano alle cinque del mattino e portano i loro bambini al nido. D’altronde io non volevo fare l’attrice: io sono nata attrice. I miei mi hanno sempre mandato dalle suore per tentare di esorcizzare questo demone e allora io cosa facevo? Recitavo di notte, in bagno, e a volte penso che è per questo che sono diventata un cesso di donna.

E veniamo alla benedetta signora Silvani: benedetta o maledetta?

Tutte e due. Con Fantozzi sono riuscita a mostrarmi come una gran fica, tanto che incontro ancora persone che ricordano con appetito “Miss Quarto Piano”, ma ho avuto gioco facile nel confronto con la moglie – il personaggio, non Milena Vukotic, che è carina e graziosa. Tutto è relativo, dunque. Sono orgogliosa di essere diversa, ma mi sarebbe piaciuto non essere solo brutta, ma anche gay o negra, e andarlo a raccontare in tutti i vicoli sotto le nuvole, che sono le mie comete di giorno. Quasi tutti i miei amici, se non tutti, sono gay e io rimprovero loro solo la tendenza ad autoghettizzarsi: amare chi cavolo ti pare è un diritto di tutti.

Teatro, cinema o televisione?

Il mio acquario è il teatro. Io sono un animale, e possiamo aggiungere “da palcoscenico”. Quando salgo su un palco, anche se forse non lo sono, mi sento bellissima, bravissima e intelligentissima. Ho bisogno di stare là come su un piccolo trono che mi sono meritata, dove posso raccontare i personaggi nei quali metto le mie esperienze, perché me li scrivo, me li soffro e me li racconto da sola, non potrei mai scrivere per altre persone. Il mio teatro va dall’ironia al dramma, dalla comicità più becera al canto e al ballo: mi piace mostrarmi in tutta la mia orrendezza. Non è propriamente un monologo, è una commedia fatta da un solo personaggio. Non me lo sono inventata, ma è il modo che mi corrisponde di più. La televisione invece mi annoia terribilmente, ho fatto un’unica fiction, terrificante, dove dormivano tutti, lavoravano per avere l’ora di pausa e andare a cena da qualche parte, e non c’era nessun sacro fuoco. La gioia che provo in teatro, nel raccontare le emozioni, non ha eguali. E il cinema grossomodo mi dà la stessa sensazione della televisione, i tempi sono lunghi, ci si perde, e soprattutto manca la paura di sbagliare, che è di per sé una grande emozione.