Tamara Ferrari, Vanity Fair 2/7/2014, 2 luglio 2014
TRAPPOLA A ELDORADO
«Nel mio Paese non c’è lavoro, non c’è nulla. Ecco perché sono venuto qui. Quelli partiti prima di me, quando tornavano sfoggiavano macchine costose, abiti firmati e vantavano grandi ricchezze. Raccontavano di opportunità, negozi avviati con successo, salari incredibili. Anche sui giornali non si parlava d’altro. I miei genitori insistevano: “Che cosa aspetti ad andare anche tu?”. Ma io non me la sentivo di avventurarmi in un altro continente senza nessuna garanzia. Poi, un giorno, chiamò a casa uno zio: “C’è un imprenditore che cerca ingegneri”, mi diede il numero.
La voce al telefono disse: “Vieni con un visto turistico, dura un mese. Nel frattempo, ti metteremo alla prova e, se andrà bene, penseremo noi a farti avere il permesso di soggiorno per restare a lavorare”. Era la mia occasione.
Appena arrivai nell’azienda mi presero il passaporto: “Ci serve per sbrigare le pratiche burocratiche”. Ma quando il mese finì, del visto non c’era nemmeno l’ombra. Invece arrivò la polizia. Mi arrestarono un mercoledì alle 18, all’uscita dal lavoro. Scoprii dopo che un collega mi aveva denunciato.
Mi chiusero in una cella con altri quattro clandestini, faceva un caldo asfissiante, mi sentivo soffocare. “Da dove vieni?”, mi chiese uno. Non risposi, non riuscivo a parlare. Pensieri terribili mi affollavano la mente. Che cosa mi avrebbero fatto? A casa nessuno sapeva dove mi trovavo, chi mi avrebbe aiutato?
Portarono la cena, un piatto di riso e una testa di pesce. Non mangiai. Invece mi sdraiai sulla branda. Quella notte non chiusi occhio. Il giorno dopo mi liberarono. Un collega che aveva assistito al mio arresto aveva avvisato il mio datore di lavoro. Non so quanto abbiano pagato per la mia scarcerazione, so solo che sono stato fortunato, perché la mia azienda si è comportata in modo serio.
Poteva capitarmi, invece, quello che sta succedendo a tanti portoghesi venuti in Angola a cercare fortuna. Gli imprenditori, pure loro europei, li attirano con tante promesse, e poi gli sequestrano il passaporto e li costringono a lavorare da schiavi, non li pagano e se protestano minacciano di denunciarli. Questi ragazzi vivono ammassati in appartamenti, dieci per stanza. Oppure in baracche, nelle favelas, proprio come gli africani in quel vostro paese nel Sud Italia...».
Rosarno?
«Sì, proprio quello».
«Ci sono troppi interessi economici in gioco tra Angola e Portogallo, a nessuno interessa raccontare come stanno davvero le cose», mi ha spiegato Carlos, 35 anni, che con questa testimonianza squarcia il velo su quello che da qualche anno succede nell’ex colonia portoghese, protagonista di un boom economico senza precedenti, guidato dai proventi dello sfruttamento del petrolio, le cui riserve ammontano a più di 10 miliardi di barili.
Il secondo motivo, che è anche quello per cui qui non trovate le foto dello sfruttamento e delle baracche, è che i portoghesi «sfortunati» non vogliono essere riconosciuti in patria.
Non avrei mai immaginato di trovare in Africa giovani laureati europei che vivono in condizioni quasi disumane. Ben altra storia raccontavano i giornali, che con titoli come L’Angola colonizza il Portogallo e I portoghesi cercano lavoro a Luanda avevano attirato la mia curiosità, convincendomi ad andare a dare un’occhiata al nuovo Eldorado.
Ho scoperto che sì, è vero che qui tanti occidentali hanno «trovato l’oro». Ma c’è anche la realtà di Carlos, che mi ha detto: «Scrivilo quello che mi è successo, bisogna mettere in guardia i tanti europei che sognano di venire qui».
Si calcola che in Angola vivano ormai circa 150 mila portoghesi. Fino al 2006 erano solo sei mila, ma dopo che, nel 2011, il premier portoghese Pedro Passos Coelho ha invitato i disoccupati a cercar fortuna nell’ex colonia, è iniziato l’esodo.
«Ma non si tratta di vera immigrazione», precisa nel suo ufficio nella capitale António Faria de Vasconcelos, titolare di una società di formazione e orientamento al lavoro. Sposato con un’angolana, vive qui dal 1998. «Quando sono arrivato c’era la guerra civile. I miei amici mi dicevano: “Sei pazzo”. Non è stato facile, a Luanda si sparava per strada e per quattro mesi non ho trovato lavoro. Poi con un connazionale decisi di metter su questa società. Mi è andata bene».
E aggiunge: «Fino a qualche anno fa i portoghesi venivano con le famiglie, per restare. Oggi arrivano per arraffare il malloppo e scappare. Lavorano come ingegneri, operai, aprono negozi, società di importazione, poiché in questo Paese non si produce nulla, trovano impiego nelle banche e nella ristorazione. Sono attratti dagli stipendi alti, ma non sanno quanto sia difficile vivere a Luanda. C’è tanta criminalità, non puoi camminare a piedi per strada, devi per forza girare con macchina e autista. La luce salta in continuazione, dai rubinetti spesso non esce acqua. Il cibo costa in maniera esagerata, perché arriva tutto dall’estero».
E poi c’è il problema dei visti. «Ormai è difficile ottenerli, ci vuole la lettera d’invito di un’impresa», spiega António, «e bisogna garantire al governo che il nuovo arrivato insegnerà il suo mestiere agli angolani. Il visto di lavoro dura un anno, può essere rinnovato per due volte, per un totale di tre anni, ma bisogna dimostrare che è realmente necessario. Ai miei tempi potevi aprire un’attività anche se eri “straniero”, oggi devi avere un socio angolano. Inoltre, per legge l’80 per cento del personale assunto deve essere locale. Ma qui non è facile trovare manodopera qualificata». Forse è per questo, per far fronte a questi doveri onerosi, che gli imprenditori portoghesi hanno cominciato a sfruttare i connazionali?
Ricca di giacimenti petroliferi, diamanti e risorse minerarie, dal 2002 l’Angola è protagonista di un boom economico che solo nel 2012 ha fatto crescere l’economia del 6,8 per cento; l’anno dopo del 7,1. Una ricchezza improvvisa, che fa da contraltare alla crisi economica che ha colpito il Portogallo, costretto, nel 2011, ad accettare un prestito di 78 miliardi di euro dall’Unione europea e dal Fondo monetario internazionale in cambio di politiche di austerità che hanno impoverito ancora di più la popolazione, e portato la disoccupazione a un tasso del 14,4 per cento.
Quasi quarant’anni dopo l’indipendenza, i «colonizzati» stanno diventando «colonizzatori». Nel febbraio 2011 il governo portoghese, per scongiurare il crash, pensò di mettere in vendita dei quadri di Miró: un angolano si offrì di comprarli. I negozi del centro di Lisbona sono frequentati ormai più da luandesi che da portoghesi. Ricchi angolani comprano interi quartieri residenziali a Cascais, e le compagnie statali che vengono privatizzate. Si è calcolato che l’Angola abbia già investito in Portogallo tra i 10 e i 15 miliardi di euro acquistando società energetiche (Galp), banche (Banco Comercial Português e Banco Português de Investimento), imprese edili e agricole.
A guardarla dal lungomare sembra Manhattan, ma una Manhattan pericolosa dove, passato il crepuscolo, s’ode ancora il rumore dei cinesi che lavorano nei cantieri e in giro si vedono solo «neri», perché «nell’ultimo anno hanno rapinato e ucciso almeno cinque portoghesi», mi dice Luiz Andrade, uno chef portoghese di 23 anni arrivato un anno e mezzo fa e già nella lista dei sette migliori cuochi del Paese. «In Portogallo vivevo con mia madre e mio fratello gemello», racconta, «papà ci ha abbandonati quando eravamo piccoli, mamma aveva perso il lavoro. Dopo la scuola, ho ricevuto un’offerta, lo stipendio era buono, niente a che vedere con i 600 euro scarsi che danno a Lisbona. Sono partito. Qui mi sono fidanzato, sto per diventare padre. Con quello che guadagno mantengo anche mia madre, che è rimasta a casa». Poi aggiunge: «Non so come fosse prima, ma Luanda a me piace davvero tanto».
Non la pensano allo stesso modo gli intellettuali. «L’hanno snaturata», mi dice il regista portoghese Antonio Jorge, sbarcato nella capitale sedici anni fa, e mai più andato via. «Mi sono trasferito da Lisbona per convivere con la donna che amavo, sono rimasto folgorato dalla bellezza della città e dei suoi abitanti, che racconto nei miei film. Oggi, mi capita di uscire e non orientarmi più. I colori hanno lasciato spazio al grigio del cemento. Dov’è il verde? Dove gli alberi?». Gli fa eco lo scrittore Ondjaki, premio Saramago 2013, che cinque anni fa se n’è andato in Brasile: «Era bella Luanda. C’erano teatri, c’era vita, c’era allegria. Che fine hanno fatto?».
Lui, che da dieci anni recupera i ragazzi abbandonati per strada dalle famiglie, in questi luoghi è di casa. «Vi siete chiesti che fine fanno i cittadini mandati via per far spazio ai grattacieli?».
Don Tolle ci mostra le migliaia di persone trasferite in massa nei nuovi quartieri chiamati Zango, agglomerati di casette in cemento poggiate su strade sterrate e senza fogne, che a guardarle da vicino ricordano i container dei terremotati. Nei giorni successivi scopriremo che sono state costruite anche città per la middle class, come Kilamba, fatta di palazzoni per ora quasi tutti disabitati dove ogni appartamento costa sui 140 mila euro, e quartieri per soli ricchi con ville e piscine.
«Per venire al lavoro gli angolani si alzano ogni mattina alle 4», aggiunge, «mai come oggi bisogna stare vicini a chi ha bisogno».
C’è un Paese ricco, quello che si sta comprando il Portogallo, e uno dove il 60 per cento della popolazione vive sotto la soglia di povertà. C’è la Luanda abbiente, la seconda città più cara al mondo, dove entrare in un nightclub costa oltre cento dollari e gli stranieri si ritrovano sull’Ilha, il quartiere dei ristoranti e bar esclusivi per cene a base di aragoste. E quella dove mancano luce e acqua. «Non si investe nell’istruzione e nella sanità», lamenta il medico Manuel Pedro, 58 anni, nato in Angola, espatriato nel ’65 e ritornato nel 1992. «La popolazione è decimata da tubercolosi, Aids e malaria. Il boom economico ha creato una classe di ricchissimi, le persone vicine all’entourage del presidente (il governo, tra l’altro, nel 2011 è stato accusato dall’Fmi di corruzione, ndr) e ha reso ancora più poveri tutti gli altri. La gente è scontenta, temo che possa scoppiare un’altra guerra». Un’ipotesi alla quale non crede José Matos, ingegnere portoghese arrivato un anno fa: «Ci sono troppi interessi economici perché possa succedere». A Luanda José dirige i lavori per costruire una strada. «Costa più che in Portogallo, perché i materiali sono tutti importati, e la manodopera angolana non è qualificata e si assenta spesso».
È per questo che imprenditori senza scrupoli sfruttano i giovani europei?, gli chiedo.
«È più facile che accada con i cinesi», risponde José.
Ma Carlos, col quale abbiamo iniziato questa storia, conferma. E aggiunge: «Lo sfruttamento può essere evitato».
Come?
«Quattro regole: verificare in patria chi sono le imprese che offrono il lavoro. Mai consegnare il passaporto né portarselo in giro: meglio girare con una fotocopia autenticata. E, soprattutto, avere sempre in tasca il volo di ritorno».